giovedì 7 novembre 2013

Le origini delle Regate veneziane

Le origini delle Regate si fanno risalire al XIII secolo, anche se, considerando la competitività degli uomini, possiamo facilmente immaginare i pescatori e gli ortolani sfidarsi a gara tra loro per raggiungere i mercati, fin dai tempi della prima colonizzazione della laguna.
Il termine "regata", che oggi è internazionale (inglese "regatta", francese "régate", tedesco "regatta"...), è voce veneta, a sottolineare la paternità veneziana di tutte le moderne competizioni remiere. C'è chi lo fa derivare da "riga", intesa come l'allineamento di partenza, chi da una contrazione di "remigata" (remata), chi da dal termine "recaptare" cioè contendere.
Il termine regata passò a Genova nel XIII secolo, in Inghilterra e in Francia nel XVII secolo, in Germania e in Spagna nel XVIII.
Nella tradizione veneziana l'origine della regata è legata alla Festa delle Marie che si celebrò a Venezia fin dall'anno 942. In un pometto in versi latini del 1300 circa, viene descritta una gara su barche con premio "come si suol fare nella corsa dei cavalli"; detto per inciso, la frase "positum praevia munus habet, ut solet in cursu fieri certamen equorum" è forse la più antica memoria scritta di regate, se si eccettua la nota di un antico manoscritto che parla di una regata che si sarebbe svolta il 16 settembre 1274.
Queste fonti non attestano però l'esistenza di vere e proprie competizioni, come è invece provato dopo il 1300. Un decreto del 1315 del Doge Soranzo ordina che ogni anno, nel giorno di San Paolo (25 gennaio), si faccia una regata per l'esercizio dei giovani ai remi. Il decreto non fa però che dare veste ufficiale alla consuetudine nata tra i balestrieri di gareggiare tra loro lungo il percorso tra San Marco e il Lido.
Il 31 maggio 1531 un altro decreto stabilì che l'Arsenale costruisse 25 galee specificamente da competizione, che gareggiassero, 4 volte l'anno, in occasione delle feste dei SS. Apostoli, della Sensa, di S.ta Marina e di San Bartolomeo. Al primo equipaggio spettavano 200 ducati, al secondo 150, al terzo 100, e così via fino ai 40 del sesto.
Ma le regate venivano organizzate anche in occasioni mondane o di visite di persone importanti. Nel 1369 si tennero due regate in onore del Marchese Nicolò d'Este di Ferrara, nel 1441 se ne corse una per le nozze di Jacopo Foscari con Lucrezia Contarini, così come se ne corsero più d'una nel 1422 in onore di Francesco Sforza e della sua sposa.
Il 1493 è un anno importante perché vi ebbe luogo la prima regata femminile: 48 donne delle isole "in vesti di lino succinte" si dettero battaglia su 12 barche a 4 remi, in onore di Eleonora d'Este.
Con la caduta della Repubblica, nel 1797, anche le regate persero in fasto, pur non venendo naturalmente a cessare.
Giungiamo così al 1899 quando il Comitato Cittadino dei festeggiamenti, nominato in occasione della III Biennale, ebbe l'idea di riproporre fastosamente la Regata durante il periodo dell'esposizione d'arte. Appoggiato da Filippo Grimani (il sindaco d'oro) e con il concorso entusiastico di tutta Venezia, il Comitato riuscì a dar vita prima grande "Regata Storica" dei tempi moderni.

(Fonte: Silvio Testa)

mercoledì 4 settembre 2013

Lo scialle veneziano, un simbolo scomparso

Già al tempo in cui E.M. Baroni scriveva (nel 1921)), con passione di veneziano e commozione d'artista, un libretto-elogio dello scialle veneziano, il bel costume caratteristico andava scomparendo dalle calli di Venezia:

"Ora, questo originale adornamento femminile, questo stupendo ed elegante capo del corredo della donna, accenna a scomparire. Le fanciulle veneziane, specie le più giovani, sembra quasi abbiano in disprezzo lo scialle, e si direbbe che il sogno più roseo di una gaia sartina o di una piccola operaia sia quello di poter indossare la camicetta e sfoggiare il cappello, in luogo di offrire all'ammirazione della folla le ben salde spalle ammantate di nero e al bacio del sole le folte e belle capellature bionde, brune, castane o tizianesche... Lo scialle sta per scomparire... Quel magnifico scialle decorativo dalle ampie pieghe artistiche, dalla foggia che carezza le forme e dava ad esse una seducente flessuosità, una insuperata morbidezza, ed abbelliva il corpo femminile di misteriosi fascini".

I lussuosi scialli adorni di fiori irreali, costituivano il mantello da sera preferito dalla belle ed eleganti dame veneziane. Ma fra tutti, il più semplice e insieme il più elegante, era pur sempre lo scialle nero, fine, adorno di pochi fiori di seta ricamati sul morbido tessuto all'origine delle lunghe, sottilissime frange.

Perché le donne veneziane abbandonarono quasi del tutto lo scialle?
Prima della guerra lo scialle si manteneva nell'uso generale delle popolane, perché la tradizione legava in certo qual modo il diritto di portare lo scialle (el fazuol, dei tempi antichi) all'onestà e alla rispettabilità delle dame, nei secoli passati el fazuol era infatti interdetto  alle meretrici, e la proibizione era rimasta nelle consuetudini.
E venne la guerra. Migliaia di veneziane furono costrette a cercar rifugio in altre città d'Italia, e a rimaner profughe per anni. Trovandosi in ambienti nuovi, dove le donne non portavano lo scialle, le veneziane si adeguarono. E una volta tornate a Venezia, molte di esse non lo indossarono più.
Nel frattempo la svalutazione della lira indusse parecchie donne del popolo a inalberare il cappellino, per contro il prezzo notevolmente aumentato degli scialli, divenuto oggetto relativamente di lusso in confronto dei cappellini e delle blouses, dissuase molte altre donne dal mantenersi fedeli ad un costume che forse avrebbero voluto serbare.
Così in pochi anni di dopo guerra, il caratteristico costume muliebre veneziano scomparve quasi totalmente dalla calli veneziane.

Non sarà possibile far rivivere il graziosissimo costume che s'intona squisitamente con i capelli corti e le gonne succinte voluti dalla moda contemporanea?
La risposta è sì, grazie a Sabrina e Betty della Sartoria dei Dogi, che tra i tanti antichi capi riportati in vita, realizzano magnifici scialli ricamati a mano, in perfetto stile veneziano.
La Sartoria è una delle tappe del tour degli artigiani proposto da L'altra Venezia.

Per informazioni: info@laltravenezia.it

Fonte: "Lo scialle veneziano" di E.M.Baroni, edito da Filippi Editore Venezia


martedì 27 agosto 2013

La maschera di Pantalone, mercante di Venezia

Maschera di Pantalone a Venezia
La compenetrazione radicale tra Venezia e la maschera, pone la questione se fosse il Carnevale ad entrare in tal modo nella quotidianità o se l'ambiguità della maschera si innestasse sulla ambiguità ideologica della società veneziana. Si noti comunque che la maschera di Pantalone, che è la più veneziana, non intende proporre alcun elemento di esotismo o di grottesco, ma soltanto riproporre il prototipo di cittadino veneziano:
"Vada ognun persuaso che questa mascara fosse stata istituita anche prima dell'introduzione delle rappresentazioni teatrali, poiché il vestire di costui denota quello de' cittadini veneti del secolo XVI".

Ricostruendo l'origine del teatro veneziano all'inizio del Cinquecento e segnalandovi la presenza corruttrice di "interlocutori mascherati ridicoli e soggetti a beffe", si rileva tra costoro l'introduzione di un "vecchio cittadino veneziano" che venne chiamato "Pantalone" (sembra dall'abitudine dei mercanti della Serenissima di piantare il vessillo di San Marco ovunque si recassero, per cui detti "pianta leone")
"La maschera veneziana ebbe da principio anche il soprannome di Magnifico. Titolo onorifico molto in uso a Venezia nel secolo XVI, indirizzato soprattutto ai patrizi". Non è improbabile che l'uso di questo titolo venisse anche utilizzato per indicare il lustro e la dignità sociale del mercante veneziano. Titolo infine non disgiunto da un palese intento parodistico, nei confronti di una borghesia che spesso scimmiotta gli attributi dell'aristocrazia.

Dunque originariamente Pantalone non è una maschera ma una caricatura del veneziano modello: mercante, ricco, avaro. Tuttavia alcuni caratteri della maschera (la barbetta a punta, il sopracciglio alzato) sono gli stessi della commedia greca antica.
Spesso Pantalone è raffigurato come un vecchio, perché secondo una tipologia comica già antecedente, i suoi difetti appaiono più marcati e ridicoli. Naso adunco, barba a punta, sopracciglio alzato, sono però anche tratti levantini, quasi giudaici, degni appunto di un "Mercante di Venezia" shakespeariano.
Ma attenzione a quanto avvisava Allardyce Nicoll:
"E' dunque un personaggio d'una drammaticità ben più sottile di quella d'un semplice vecchio logorato dall'età. Nel pensare a Pantalone dovremmo dimenticare il personaggio di Shakespeare, scarno e smunto, i piedi infilati in pantofole, e cerca di vederlo come fu veramente, o almeno come avrebbe dovuto essere: un mercante di mezza età, vigoroso, onesto, con alle spalle una bella carriera, coinvolto in vicende sentimentali cui non sempre riesce a tener testa".

Pantalone vecchio e giovane, dunque. Pantalone vecchio in "La dispettosa moglie" (Alessandro Zatta, 1667). Il "Pantalone imbertonao" ("innamorato"), commedia eponima pubblicata nel 1673, laddove la scena è una Venezia pre-turistica, già piena di "foresti" (l'oggetto dell'innamoramento di Pantalone è una giovane francese...).
Pantalone diventa perfino povero e affronta la "Bancarotta, ovvero il mercante fallito" (Goldoni, 1740). Il trattamento della maschera in Goldoni nella Commedia dell'Arte è particolarmente attento al suo simbolismo depositario di una mentalità in declino.

Ma a parte Goldoni e la suggestione di un Pantalone ebraico, la figura del padrone non sembra aver goduto della medesima fortuna di quella del servitore. Lo stesso Carlo Gozzi, sebbene ben più tradizionalista di Goldoni, presenta il suo Pantalone in modo anacronistico, quasi umiliante. Anche perché i vizi che la maschera doveva incarnare, soprattutto l'avarizia (ma anche la libidine senile), erano destinati, attraverso una lettura severa e a volta nostalgica a trasformarsi in virtù borghese.

Infine i francesi chiameranno "Pantaloni" quei veneziani che:
"Erano pescatori, sono divenuti mercanti, si fecero corsari ed ora sono usurai". E si giunge così al fatale 1797.

Fonti: Alessando Scarsella, Grevembroch, Spezzani, Allardyce Nicoll.

lunedì 10 giugno 2013

Poesia e musica nelle villotte friulane

La villotta è una particolare forma polifonica a tre o quattro voci su testi di vario metro, nata nel XV secolo e di origine friulana.
La diffusione in altre zone dell'Italia settentrionale diede luogo a forme locali, quali la villotta alla veneziana e la villotta alla mantovana.
Il musicologo Fausto Torrefranca (1883 - 1955), sostiene la villotta nascere alla fine del ‘400 come aria di danza a canto, dove la voce portante veniva mescolata, in un dialogo tra voce solista e coro d’accompagnamento, a comporre una polifonia, incatenata dal “nio”, sorta di ritornello atto al ballo, ma anche legante tra diverse quartine.Sembra una stretta gabbia, ma è la forma di espressione che ha funzionato per almeno quattro secoli permettendo alla forma di modello chiuso una libera e fertile espressione popolare ancora viva seppur in forma popolaresca.
Michele Leicht (1827-1897), storico cividalese, sostiene che questi piccoli canti sono la forma filosofica friulana per aggiungere contenuti e arricchire lo spirito.Un pensiero malinconico che libera, o che allarga la sensazione momentanea di libertà, per insaporire il presente. La vena poetica stava nella grande capacità di rimescolare le parole e tirare fuori il succo, alludendo, pungendo con ironia, senza mai toccare il nervo del dente che duole. Un lampo che scoppiettando arriva dritto al bersaglio.
Angelo Dalmedico, in "Canti del popolo Veneziano" nel 1848, e probabilmente riferendosi ai friulani immigrati a Venezia, dice: “Sino alla fine del secolo passato, le villotte venivano cantate accompagnate dal contrabbasso, dal mandolino e dalla chitarra. Ora vengono cantate dalle donne accompagnate dal cembalo coi sonagli, tessendo un ballo con un intermezzo che chiamano “nio” che ha una musica ancora più allegra".
Forse chi delle villotte ne ha scritto in maniera più estatica è stato Pier Paolo Pasolini (1922-1975) , che definisce un “cjandît lusôr inocent” (una luce candida e innocente) così ne scrive “Brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito talvolta ciecamente malinconico, malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi di pino, nelle notti tiepide”.

Vorave far la morte picinina:
morto la sera, e vivo la matina
Vorìa morire e no vorìa la morte
Vorìa sentir chi me pianze pì forte.
Vorìa sentir i me amici e i me parenti,
Vorìa sentir li preti con la croze
Et lo mio amor a gridar ad alta voze

Sant’Antonio miracoloso
Fé che fasso pase con mio moroso
E se no volé che fasso pase co lu
Andéve a far benedir anca vu

Ch’el mar fusse d’inchiostro mi vorave
E’l ciel ch’el fussi duto quanto un sfoio:
el nome suo in continuo scrivarave
digando a tuti el ben che mi ghe voio.

Esser vorave un oselin de un’ora
E svolarghe al mio ben dove el lavora
Svolarghe su la ponta del capelo
Per dirghe: - cossa fastu, amante belo?

Ma mi vorìa far come fa’l vento
Batter giù li balconi e saltar dentro
Saltar di dentro senza far fracasso
Darve tre basi e poi andare a spasso

Che fosse ‘na viola, dio el volesse!
E in piazza l’ortolana me portasse:
vegnesse el me moroso, e el me crompasse
e sora el so capel el me metesse!

venerdì 24 maggio 2013

Wagner a Venezia

Dopo un primo soggiorno dal 1856 al 1859, Richard Wagner e la sua famiglia tornarono a Venezia nel 1882. Dapprima alloggiarono all'hotel Europa poi si trasferirono a Cà Vendramin-Calergi.
Il loro appartamento era all'ammezzato nell'ala affacciata sul giardino, era formato da 28 stanze, cucina e servizi; Wagner apprezzava soprattutto la grande sala per ricevere gli ospiti, la cui doppia finestra offriva una splendida vista sul Canal Grande.
Franz Liszt, che andò a trovare la figlia Cosima e il genero, soggiornò a Cà Vendramin-Calergi sul finire del 1882. Liszt e Wagner furono visti spesso seduti uno di fronte all'altro, davanti all'ampia finestra sul Canal Grande, mentre chiacchieravano. Fu proprio qui che Liszt scrisse la prima stesura de "La lugubre gondola" ispirata dai remi di una gondola che, racconta gli "bastonavano il cervello".
Ma a Wagner non sarà concesso di godere a lungo della bella casa veneziana. Egli infatti morirà, nel suo studio, il 13 febbraio 1883, a causa di una paralisi cardiaca.
Le sue spoglie furono trasportate via gondola alla stazione ferroviaria e da lì in treno fino in Baviera. D'Annunzio descrisse il trasporto della salma di Wagner nel suo romanzo "Il fuoco" scrivendo "Il mondo pareva diminuito di valore", sempre D'Annunzio dettò le parole per la lapide posta sul muro esterno del palazzo, verso il Canal Grande. Il 19 aprile venne organizzato un concerto in suo onore nel giardino del palazzo, concerto al quale assistettero centinaia di barche ormeggiate in Canal Grande.
Spesso, durante i suoi numerosi soggiorni a Venezia, a Wagner capitava di assistere in Piazza San Marco a concerti tenuti dalle bande musicali militari austriache che suonavano sue opere. I veneziani ascoltavano volentieri, ma non applaudivano mai; non per mancata ammirazione verso Wagner ma per dispetto verso i militari austriaci.
La vigilia di Natale del 1882, per festeggiare il compleanno della moglie Cosima, Wagner diresse un concerto privato nelle sale Apollinee della Fenice. Fu suonata la Sinfonia in Do maggiore, opera giovanile, eseguita dagli allievi e dagli insegnanti del Liceo Benedetto Marcello (la bacchetta è stata gelosamente conservata). Liszt era presente, e su richiesta di Wagner, suonò al pianoforte un'aria di Rossini.

domenica 28 aprile 2013

La chiesa di Santa Croce alla Giudecca

La chiesa e il complesso conventuale risalgono agli inizi del 1300, ma già nel 1500 subì una radicale ristrutturazione, e ulteriori rimaneggiamenti ebbero luogo lungo i secoli.
La chiesa un tempo era molto nota oltre che per i ricchi arredi, anche e soprattutto per il gran numero di reliquie in essa conservate, in essa infatti si trovavano: reliquie lignee della Croce di Cristo (da cui il nome della Chiesa), l'indice della mano destra di San Giovanni Crisostomo, la testa di San Teofane martire, un piede di Santa Teodosia martire, il corpo di Sant'Atanasio patriarca di Alessandria e il corpo della beata Eufemia Giustinian, già badessa del monastero.
Eufemia Giustinian nacque nel 1409 e all'età di soli sedici anni entrò nel monastero della Santa Croce alla Giudecca, per divenirne badessa nel 1444. La sua grande carità cristiana si era mostrata concretamente durante una grave pestilenza che colpì la città nel 1464, in quell'occasione dimostrò animo intrepido assistendo numerosi malati afflitti dalla peste. Morì nel 1487 e il suo corpo si mantenne incorrotto. Venne poi beatificata.
Legato alla figura della badessa e ad un pozzo del monastero è nota un'antica leggenda. Sempre durante la pestilenza del 1464 successe al monastero un fatto straordinario: si narra che una notte qualcuno bussò alla porta del convento, la badessa aprì lo spioncino e vide un uomo incappucciato, senza timore alcuno aprì la porta allo sconosciuto e lo invitò ad entrare. Lo straniero disse di essere assetato e di stare semplicemente cercando un poco d'acqua. La suora lo condusse quindi al loro pozzo e gli porse da bere. L'uomo si scoprì il volto e svelò di essere San Sebastiano. Colpito dalla generosità di Eufemia annunciò che l'acqua di quel pozzo avrebbe preservato le monache di quel convento dal morbo della pesta.
A tal punto si diffuse la leggenda che durante la peste del 1575 (quella del Redentore) frotte di persone si accalcavano quotidianamente davanti al portone del monastero chiedendo di poter bere l'acqua del pozzo di San Sebastiano; addirittura più volte le suore furono costrette a chiamare le forze dell'ordine per far sciogliere gli assembramenti!
Con l'arrivo di Napoleone  il monastero fu soppresso e divenne una casa di correzione che arrivò ad ospitare diverse centinaia di detenuti. Fu poi un magazzino per la raccolta del tabacco, e dagli anni sessanta del Novecento è divenuta sede sussidiaria dell'Archivio di Stato di Venezia.

lunedì 1 aprile 2013

La Battaglia di Lepanto e l'astuzia dei veneziani

La Battaglia di Lepanto, nel golfo di Patrasso, fu lo scontro decisivo tra la flotta cristiana e quella turca.
Il 20 maggio del 1571 Papa Pio V creò la Lega Santa alla quale parteciparono oltre allo Stato Pontificio, Venezia, Genova, la Spagna, i Savoia e Malta -  la flotta cristiana era formata da circa 200 galere di cui oltre la metà erano veneziane, con al comando il Capitano da Mar Sebastiano Venier, la flotta turca ne aveva circa 250.
La prima linea della flotta cristiana era formata da galeazze mercantili veneziane trasformate per l’occasione in navi da guerra, ma  quello che i turchi non sapevano era che erano state armate di cannoni non solo a prua, come tutte le normali galee, ma anche sui fianchi e a poppa.
La mattina del 7 ottobre avvenne lo scontro, le galeazze veneziane in prima fila stavano molto distanziate tra loro e i turchi lo interpretarono come un errore tattico e attaccarono subito infilandosi con gran parte della loro flotta tra la galeazze veneziane. Appena giunsero all’altezza delle navi queste distribuirono una tale potenza di fuoco dai fianchi che la flotta turca venne subito quasi dimezzata, non ebbero tempo di capire cosa fosse successo che il resto della flotta cristiana attaccò e la vittoria fu piuttosto rapida, anche perché i veneziani attaccarono e affondarono la galeotta dell’ammiraglio responsabile di tutta la potenza turca, Alì Pascià, uccidendolo. La flotta turca fu quasi completamente distrutta, mentre quella cristiana subì, tutto sommato, poche perdite.
La gioia per la vittoria fu enorme e si festeggiò in tutta Europa – naturalmente il Papa non poteva certo ammettere che il merito della vittoria fosse per lo più dei veneziani, così proclamò che era stato grazie alla Madonna del Rosario (che si festeggia appunto il 7 ottobre)...

lunedì 18 marzo 2013

Chiesa e Ospedale di Santa Maria dei Derelitti

 All’inizio questa istituzione era piuttosto modesta, poi all’ospedale venne affiancato un ricovero per orfani: ai ragazzi si insegnava un mestiere e alle ragazze si insegnava musica; ma quello che era un intento solo educativo divenne presto fonte di notevoli entrate economiche, la gente faceva la fila per venire a ascoltare le voci soave delle fanciulle! Fu così che tra gli incassi della scuola di musica e il lascito testamentario di Bartolomeo Carnioni fu possibile ampliare l’ospedale e far costruire la facciata - realizzata dal Longhena - divisa in tre parti: quella inferiore in stile ionico, con mascheroni e festoni di frutta (la scultura sopra l’ingresso rappresenta la Madonna addolorata, un accenno al tema della sofferenza dei malati ospiti dell’ospedale annesso), la fascia centrale presenta dei telamoni con la Pecten Pilgrimea (cioè la conchiglia dei pellegrini) uno porta una borraccia ed un altro un rosario (allusioni alla funzione assistenziale e caritatevole dell’ospedale), nella nicchia centrale: busto di Bartolomeo Carnioni (ricco mercante che possedeva un negozio alle Mercerie e che alla morte, essendo senza eredi, lasciò tutto a questo Ospedale; egli aveva un negozio con insegna allo struzzo, animale che compare ai suo lati; le penne dello struzzo erano simboli di equità e giustizia per il fatto che hanno tutte la stessa lunghezza), la terza parte è l’attico, cioè quell’elemento architettonico continuo che si poneva attorno al tetto per nasconderlo, elemento usato per la prima volta appunto in “Attica” una regione della Grecia.
L'ospizio vero e proprio è un edificio a tre piani, addossato alla chiesa, e vi erano ospitate un centinaio di giovani. La corte interna, anch'essa opera del Longhena, detta "Corte delle quattro stagioni" presenta una vera da pozzo e alcune statue che ricordano lo stile delle ville venete lungo il Brenta. Nel 1770 i gestori dell'Ospedaletto decidono di trasformare la cucina in una prestigiosa sala da musica, che fu decorata da Jacopo Guarana e Agostino Mengozzi. Tutti gli affreschi sono naturalmente a tema musicale, il più notevole è senz'altro quello in fondo alla sala, titolato "Il concerto delle putte intorno ad Apollo". La sala della musica conobbe però una vita breve in quanto nel 1797, anche l'istituzione dell'Ospedaletto, così come di tutti gli altri ospedali, venne soppressa da Napoleone.

mercoledì 6 marzo 2013

Caterina Corner Regina di Cipro

Fin dal Duecento i veneziani erano presenti a Cipro dove praticavano diversi commerci – l'isola infatti era ricca di vini pregiati e di zucchero (all’epoca prezioso quanto il sale).
Cipro raggiunse il massimo splendore sotto la stirpe dei Lusignano (famiglia di origini francesi) dal 1100 al 1400. La stabilità venne meno quando morì Giovanni II senza figli maschi: il regno passò alla figlia Carlotta che aveva sposato un Savoia, ma Giovanni II aveva anche un figlio illegittimo, Giacomo, che appoggiato dai Veneziani occupò l’isola con la forza ed esiliò Carlotta.
Giacomo si rivolse quindi a Venezia per cercare una sposa e in particolare alla famiglia Corner, la quale aveva forti legami commerciali con i Lusignano. Sull’isola risiedeva stabilmente Andrea Corner mentre suo fratello Marco teneva le relazioni con la piazza di Venezia. Marco aveva una figlia, Caterina, che divenne così, a soli 12 anni la promessa sposa di re Giacomo, sotto la pressione della Repubblica stessa che aveva tutti gli interessi a mantenere un piede nell’isola, e così al compimento del 18° anno Caterina partì per Cipro, con un corteo formato da 4 navi veneziane e 3 cipriote.
L’accoglienza riservata a Caterina a Cipro fu eccezionale, con grandi festeggiamenti e regali da parte del popolo, ma ben presto cominciarono i guai: Giacomo, molto più anziano di lei, aveva già tre figli avuti da tre donne diverse e la convivenza si rivelò difficile... Dopo solo un anno Caterina rimase incinta, ma prima che potesse partorire, Giacomo morì cadendo da cavallo, lasciando il regno nelle sue mani. Fu così che Caterina Corner divenne Regina di Cipro.
Il popolo però si dimostrò presto scontento per via della sua condotta di vita tutta concentrata sui propri piaceri, quasi dimentica del popolo cipriota. Le cose poi peggiorarono con la morte dello zio Andrea e del figlio che nel frattempo era nato. Subito si ripresentarono i Lusignano e i precedenti figli di Giacomo, tutti pretendevano al trono; Venezia dovette intervenire militarmente per sedare ogni pretesa e Caterina fu riconfermata sul trono affiancata da due Consiglieri veneziani.
Ma la Regina sola, triste e annoiata non trovò altro modo per consolarsi che concedersi  lussi ben al di là delle sue possibilità; e di nuovo il malcontento del popolo si fece sentire... fu così quindi che la Serenissima la convinse ad abdicare, promettendole in cambio un appannaggio di 8mila ducati annui e la consegna della villa di Asolo dove si ritirò circondata dal suo seguito e dalla fama per essere stata la prima e unica Regina figlia di Venezia.
Il suo ritorno a Venezia è all'origine di un celebre evento in città, ma questa è un'altra storia...

mercoledì 27 febbraio 2013

Venezia altrimenti - Venise autrement - Venice otherwise


Da un'idea di Walter Fano e Valeria Cozzarini.
Riprese e montaggio di Valeria Cozzarini,
Musiche di Diego Fano.
Venezia altrimenti

mercoledì 20 febbraio 2013

Fra Paolo Sarpi e la questione Chiesa-Stato

Venezia fin dalla sua fondazione aveva sempre difeso la sua indipendenza non solo politica ma anche religiosa; in particolare rifiutando la giurisdizione di Roma e del Papato. Difatti i rapporti tra la Repubblica di Venezia e la Chiesa di Roma furono sempre molto travagliati.
Un episodio chiave è quello legato alla figura di Fra Paolo Sarpi (teologo, storico e scienziato italiano dell'Ordine dei Servi di Maria). Siamo nel 1606 e a Venezia erano stati arrestati per reati comuni due sacerdoti (che a Venezia venivano giudicati dal Foro civile e non da quello ecclesiastico). Papa Paolo V chiese l’immediata consegna dei due religiosi e con l’occasione pretese anche che fossero abolite alcune leggi di privilegio civile grazie alle quali la Serenissima impediva la costruzione di edifici religiosi senza l’autorizzazione del potere statale, ed altre leggi atte a limitare il controllo di Roma sul clero veneziano.
Venezia naturalmente rifiutò e così il Papa emise scomunica verso la città intera, proibendo a tutto il clero veneziano di operare in alcun modo. La crisi fu retta in modo esemplare dal Doge Leonardo Donà, coadiuvato dal consigliere di Stato in teologia e diritto Fra Paolo Sarpi.
Si rispose al Papa che Venezia, nata in libertà, non intendeva render conto a nessuno delle cose temporali mentre in materia religiosa riconosceva come unico superiore il Signore Iddio e la sua Parola. La Repubblica pertanto vietò la pubblicazione della scomunica nei suoi territori e impose a tutto il clero di continuare senza alcuna alterazione l’esercizio delle pratiche religiose. Tutti gli ordini religiosi presenti a Venezia ubbidirono alla Repubblica; l’unica eccezione furono i Gesuiti, che infatti vennero cacciati dalla città.
Una notte mentre Fra Sarpi tornava verso casa fu assalito da due sicari, sul ponte di Santa Fosca, venne colpito da diverse coltellate ma sopravvisse; dei passanti riuscirono a fermare i sicari che vennero subito arrestati e così si seppe che erano stati inviati da Papa Paolo V per uccidere il frate che tanto abilmente stava difendendo Venezia contro la scomunica! Questo episodio rafforzò ulteriormente la durezza con cui Venezia rispondeva a Roma, ma sopratutto mise sotto una luce diversa la spinosa questione agli occhi delle altre grandi potenze europee.
In ogni caso il braccio di ferro tra Roma e Venezia durò qualche mese, ma alla fine Roma dovette cedere, e Venezia ne uscì vittoriosa, con la riaffermazione della sua doppia indipendenza.
Insomma la minaccia pontificia non aveva avuto altro risultato se non cementare ancor più il legame tra le varie categorie sociali veneziane, e rafforzare il senso di appartenenza ad un' idea di Stato che per l’epoca era davvero impensabile in qualunque altro Paese europeo.
E' interessante altresì notare che Fra Paolo Sarpi è il primo religioso nella storia ad affermare la necessità di tenere separati gli interessi temporali da quelli spirituali (nel secolo precedente, un altro veneziano, il nobile Gasparo Contarini, aveva espresso più volte questo concetto in diversi suoi scritti).