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lunedì 7 luglio 2014

Cattedrale Santa Maria Assunta di Torcello

Fondata nel 639, come ricorda l'iscrizione epigrafica a sinistra del coro (considerato il più antico documento in laguna), fu fatta ricostruire nel 1008 da Orso Orseolo, figlio del doge Pietro Orseolo II, quando divenne vescovo di Torcello.

L'edificio veneto-bizantino (in forma basilicale romanica) si presenta a tre navate, con pietre a vista, una facciata centrale sopraelevata scandita da sei lesene e un porticato antistante. Questo, originariamente sorretto da quattro colonne, ne vide aggiungersi altre da entrambi i lati, che lo portarono a congiungersi con quello di Santa Fosca nel corso del XIV e XV secolo.
Sul lato destro si erge la grande torre quadrata del campanile (XII secolo), emblema, come nelle contemporanee Pomposa e Aquileia, della potenza della città.
Anticamente la facciata era affiancata da un battistero a pianta circolare di cui ancora si possono vedere le fondamenta.
Sul fianco della chiesa sono interessanti le chiusure delle finestre centinate a grandi lastroni di pietra movibili su cardini anch'essi di pietra.
Il soffitto ligneo, ad incavallature scoperte, è rimasto forse quello originario.
L'ampia e luminosa navata tripla, con le alte colonne che sorreggono capitelli in parte romani e in parte imitati nelle officine veneziane, ricorda Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna.

Il pavimento in mosaico di marmo è sopraelevato di circa venti centimetri sul preesistente del IX secolo, lavorato con cubetti bianchi e neri i cui resti si possono ammirare attraverso due botole.
Il presbiterio, ai cui piedi è posta la pietra tombale del vescovo Paolo di Altino, è segnato dall'iconostasi con al centro la porta sacra, delimitata da tre sottili colonne, chiuse per metà da plutei marmorei bizantini dell'XI secolo, adorni, come merletti di pietra, da immagini di fiori, leoni e pavoni che si abbeverano alla fontana divina. Le colonne sorreggono tavole quattrocentesche che rappresentano la Madonna attorniata dai dodici apostoli, su cui si innalza il coevo crocifisso ligneo.

L'altare, il cui piano è di spesso marmo greco, è stato ricostruito nel 1939 in luogo di un deturpante impianto barocco. Ai suoi piedi, protetto da una grata, si trova un sarcofago romano del III secolo che contiene le spoglie del santo vescovo altinate Eliodoro (spoglie traslate a Torcello in seguito alla conquista di Altino da parte dei Longobardi).
La conca absidale si apre con il trono del vescovo addossato all'abside, come in Santa Maria delle Grazie a Grado (V secolo). Questo si erge su gradinate circolari e vi si accede salendo dieci scalini, simbolo dei dieci comandamenti.
Sopra il trono episcopale è rappresentato, a mosaico, Sant'Eliodoro. Gli apostoli, vestiti con il proprio simbolo come nelle chiese ravennati, procedono simmetricamente sotto i piedi della Vergine. Al centro della processione si apre una finestrella, simbolo della luce divina, e la Vergine bizantina Teotoga (XII secolo), regalmente vestita e isolata nello spazio dorato del catino absidale, rappresenta l'incontro tra l'umano e il divino.
Tre le sue braccia regge il Bambino, che porta il rotolo della legge, mentre dalle sue mani pende un fazzoletto bianco, simbolo della mater dolorosa.
Il loro sguardo dolcissimo rapisce l'osservatore.
L'abside della cappella laterale destra, decorata a mosaico nel IX secolo e rimaneggiata nel XII secolo, rappresenta quattro dottori della Chiesa: Agostino, Ambrogio, Martino e Gregorio. Sopra è il Cristo Pantocratore con la tavola delle leggi attorniato dagli arcangeli Michele e Gabriele.
Nella cappella laterale sinistra permangono resti di un affresco duecentesco, e sulla stessa navata trova posto la piccola pala di Maria Vergine dipinta da Tintoretto.
L'imponente mosaico del Giudizio universale (XI - XII secolo), che occupa l'intera parete ovest (controfacciata), doveva ricordare ai fedeli che uscivano dalla funzione il destino finale.
Il racconto articolato in sei sequenze si legge dall'alto verso il basso: dalla Crocifissione alla separazione degli eletti dai dannati. Proprio nella raffigurazione di questi ultimi vi è la ricerca di un carattere narrativo più naturalistico, intensamente espressivo e radicalmente veneto: lo stesso carattere che si ritroverà nella Basilica di San Marco dove i mosaicisti si trasferirono alla fine di questo imponente lavoro.


lunedì 23 aprile 2012

Domenico Michiel, uno dei più grandi dogi di Venezia

Sulla facciata della Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (S.Zanipolo per i veneziani), si trovano alcune urne funerarie. La prima a destra del portale è di Marco Michiel, fondatore della chiesa domenicana di San Pietro Martire a Murano, riconoscibile per la presenza dello stemma di famiglia: uno scudo con ventun piccoli cerchi.
I Michiel erano tra le dodici più antiche famiglie di Venezia, il capostipite era Angelo Frangipane, senatore romano, venuto a Venezia con altri due fratelli. Venne soprannominato “el Michiel” per la forza e la bontà, paragonate a quelle dell’arcangelo Michele. Lo stemma venne modificato così come lo vediamo sulla tomba di Marco Michiel, da Domenico Michiel, uno dei più grandi dogi di Venezia.
Nell'aprile del 1123 egli partì con una flotta di ben 40 galere in soccorso di Baldovino II re di Gerusalemme, prigioniero dei saraceni. La flotta veneziana, giunta in prossimità del porto di Ascalona fu circondata dalla flotta egiziana accorsa a difesa del sultanato di Tiro; i veneziani riuscirono però a vincere. L'azione continuò quindi, muovendo assedio alla stessa Tiro che fu presa dopo cinque mesi. I crociati accolsero il doge da trionfatore e gli offersero il regno di Gerusalemme, disperando di poter liberare Baldovino II. Ma gli interessi dogali erano rivolti a Bisanzio che aveva nel frattempo disatteso gli editti e la "Bolla d'oro", consentendo ai pisani di avere un quartiere e liberi scambi in Costantinopoli. Stante la situazione Domenico Michiel volse la flotta verso i territori sotto l'ègida di Bisanzio e del suo Imperatore Calojanni. Attaccò e saccheggiò successivamente le isole di Rodi, Samo, Chio, Lesbo, Andros, Cefalonia e la citta di Modone. In Adriatico, attaccò l'Ungheria di Stefano II e riconquistò le città dalmate di Traù e Spalato nel maggio del 1125. Nello stesso mese Baldovino II fu liberato e concesse al doge i privilegi già concordati con il regno di Gerusalemme. L'imperatore di Bisanzio, messo alle strette, chiese la pace e nel 1126 emise una nuova "Bolla d'oro" nella quale si riaffermavano i privilegi di Venezia a Costantinopoli e nei territori imperiali.
Il ritorno del doge fu un trionfo. Fu in quella occasione che Domenico Michiel fece modificare lo stemma di famiglia (prima era uno scudo argentato con tre fasce azzurre) con i piccoli cerchi che rappresentano le monete fatte coniare a memoria della sua impresa.
Sempre in quella circostanza è rimasto famoso il gesto del Doge Michiel di spogliare le galee veneziane degli armamenti necessari alla navigazione per rassicurare i crociati che temevano di essere abbandonati dalla flotta veneziana in caso di sconfitta.

lunedì 7 marzo 2011

Gastronomia veneto-bizantina (2° parte)

Oltre ai calici, i prodotti greci colmano anche i piatti di Venezia. Dall'Epiro arriva una pregiata bottarga che, macerata nell'olio e tagliata a fettine sottili, viene servita come antipasto. S'importa anche un salatissimo formaggio chiamato zimotò, di cui si ha memoria fino all'inizio del Novecento.
Si rifanno a Bisanzio altri due elementi doc della pratica culinaria lagunare: l'abitudine di irrorare i piatti d'olio (mentre le cucine europee si devono accontentare di burro e strutto) e l'uso dell'uvetta passa: quella di Corinto, piccola e scura, adatta per le preparazioni salate, e quella Sultanina, più dolce e adatta per i dessert. Entrambe utilizzate nelle torte nicolotte, nelle sarde e negli sfogeti in saor.
Secoli di rapporti conviviali possono essere riassunti nella figura di un teatrante gastronomo, Antonio Papadopoli, mezzo veneto e mezzo greco. Cordiale e disordinato, nonché ottima forchetta, l'attore-gourmet pubblica nel 1866 un libretto intitolato Gastronomia sperimentale, nel quale propone 12 piatti "aristocratici" e 12 piatti "democratici", tra questi la coda di bove alla greca, un melange di sapori veneto-grecheschi!
Quello che oggi rimane di secoli di scambi culinari sono: i sardoni ala greca, cotti in un delicato sughetto di limone aglio e prezzemolo; e una deliziosa torta secca di pasta sfoglia chiamata appunto la grega, ricoperta di un abbondante strato di mandorle

venerdì 4 marzo 2011

Gastronomia veneto-bizantina (1° parte)

Un incessante andirivieni di uomini e merci collega le sponde dell'Adriatico con quelle dell'Egeo: grano da Cipro, vino e olio da Creta, sale e uva passa da Cefalonia e Zante, sono i prodotti monopolistici trasportati con profitto dalla Serenissima.
Tranne qualche rara eccezione, nel contesto lagunare le imprese elleniche sono di dimensioni medio-piccole, tuttavia è molto ampio l'elenco delle merci trattate. Cotone, lane, tappeti, drappi fatti di pelo di capra chiamati cameloti, coperte di lana ruvida dette schiavine, sono apprezzati nelle case veneziane. Anche la cera è un prodotto importato dai greci. Quanto a grano, orzo, fave e semi di lino, riempiono i magazzini di una città che "non ara, non semina, non vendemmia" ma che trae risorse da ogni porto.
Un discorso a parte merita il vino, che a Venezia non è mai mancato. Chiuso in orci di terracotta da 30 litri, da Creta, da Cipro, dal Peloponneso, i mercanti greci trasportano i cosiddetti "vini navigati", che vengono speziati o addolciti con miele o melassa, per conservarli meglio. Di quest'antico metodo oggi rimane solo la bevanda tonificante dei freddi carnevali: il vin brulé, che si beve caldo con zucchero, cannella, chiodi di garofano e cardamomo.
Ma il  nettare di cui si fa più smercio è l'assai delicata malvasia (termine derivato dalla città greca Monemvassìa), che si divideva in dolce, tonda e garba, ed era tanto apprezzata da essere registrata nelle spese pubbliche. Come annotava lo storico Giuseppe Tassini: "di tal vino con semplici biscottini componevansi le colazioni degli stessi elettori dei dogi; e di tal vino usavasi anche pel sacrificio della Messa, e per le comunioni".

lunedì 31 gennaio 2011

L'erezione delle chiese di San Teodoro e di San Geminiano

Correva l'anno 552 e il re degli Ostrogoti, Totila, alla testa del suo esercito lacerava un'Italia infelice. L'imperatore bizantino Giustiniano aveva eletto il suo generale Narsete come comandante in capo di tutte le truppe a difesa dell'Italia, con il compito preciso di debellare gli Ostrogoti. Questi, alla testa dell'esercito bizantino, risalì la Dalmazia, l'Istria e giunse ad Aquileia. A questo punto si aprivano di fronte a lui due strade, una che si avventurava in acqua e navigando un po' in laguna, un po' in mare aperto, portava all'esarcato, l'altra terrestre, passando per Treviso. Quest'ultima, certamente più rapida, era però molto pericolosa, così Narsete decise di rivolgersi ai veneziani chiedendo il loro aiuto per il trasporto delle truppe. I veneziani immediatamente si impegnarono ad approntare i navigli e gli armamenti per il trasporto dell'esercito bizantino.
Durante la fase preparatoria il generale Narsete fece visita alla città di Rivoalto (l'antico nome di Venezia, toponimo all'origine di "Rialto"). A lungo si fermò ad esaminare da vicino la singolare posizione di questi luoghi e la sorprendente e industriosa attività della città lagunare, della quale aveva sentito parlare in termini entusiastici. Egli, prima di lasciare la laguna per intraprendere la spedizione militare, fece voto che in caso di vittoria sarebbe tornato a avrebbe fatto erigere a sue spese due chiese, una dedicata a San Teodoro, il santo greco primo patrono di Venezia, e l'altra a San Geminiano.
L'esito della guerra fu positivo: l'armata di Totila venne messa in fuga dopo una cruentissima battaglia, e tra i caduti si contò anche lo stesso capo ostrogoto. Narsete, fedele alla promessa fatta, fece ritorno a Rivoalto, approvò i disegni delle due chiese votive e ne ordinò l'erezione. I due templi sorsero uno di fronte all'altro, sulle due rive opposte del canale Batario che anticamente correva nello spazio che oggi è occupato dalla piazza San Marco.
La piccola chiesa di San Teodoro verrà poi inglobata nella basilica di San Marco, mentre la chiesa di San Geminiano verrà demolita ai primi dell'Ottocento per volere di Napoleone. Il canale Batario venne interrato nel 1156 allo scopo di rendere più ampia e comoda quella che sarebbe diventata la "piazza più bella del mondo".

(Fonte: M. Brusegan)

martedì 25 gennaio 2011

Contaminazioni bizantine nella lingua veneziana

Parole ed espressioni quotidiane dei greci che vivevano a Venezia sono alla base di una particolare parlata, detta "venetogrecesca". Questo idioma lessicale è filtrato nella commedia dialettale (particolarmente viva nel Cinquecento) dove s'incontrano figure convenzionali come il recitatore del prologo, il vecchio innamorato, lo stradioto (soldato greco) millantatore.
Il dialetto veneziano ha preso in prestito circa 300 vocaboli  greci, molti riguardano il settore delle costruzioni e rivelano la diretta partecipazione di maestranze greche nell'edilizia veneta. Per fare qualche esempio: il pato de la scala è il pianerottolo, il pato de la porta, la soglia: dal greco patos, "pavimento". Di maggior rilievo è il liagò o diagò, cioè "luogo esposto al sole", da heliakos (Helios=Sole).
Ma il segno più evidente della prevalenza greca nel campo dei lavori edilizi è nascosto in una parola di uso comune: sproto. Oggi lo sproto, nel veneziano corrente, è un saccentone, un presuntuoso, Col suo corredo di sprotada, sprotezzo, sprotin e sprotar si rifà all'atteggiamento di superiorità che dovevano avere i capo-cantiere, chiamati in Grecia protomaistor, letteralmente "primo maestro", termine riferito specificamente al capo dei muratori e passato poi a designare il responsabile di un settore dell'Arsenale.
Ma come non ricordare il termine veneziano per designare la "forchetta": piron, in strettissima assonanza con il greco piruni!