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domenica 13 maggio 2012

Il Teatro della Cavallerizza

Dietro le absidi delle Chiesa di San Zanipolo si estende la Calle Torelli detta della Cavallerizza.
Nel 1640 in questo spazio fu costruito un teatro tutto in legno su disegno di Jacopo Torelli, autore anche delle macchine sceniche. Il teatro fu inaugurato per il Carnevale del 1641 con "La finta pazza" di Giulio Strozzi, su musica di Francesco Sacrati, rappresentata ben dodici volte in sole diciassette sere; seguirono, tra le altre, il "Bellerofonte" di Sacrati e la "Deidamia" di Francesco Cavalli.
Nonostante il successo il teatro fu demolito nel 1647 e al suo posto fu costruito un maneggio, chiamato "La Cavallerizza". Cristoforo Ivanovich, un canonico che visse a Venezia a fine Seicento, ce ne ha lasciato un'interessante descrizione: "In essa c'erano più di settanta cavalli, un maestro per insegnare a cavalcare, stipendiato dai notabili responsabili e inoltre si allestivano balletti equestri, giostre e spettacoli musicali".
Agli inizi del Settecento, ogni giovedì, erano eseguiti i "Salmi" di Benedetto Marcello, che duravano più di quattro ore e lo stesso autore accompagnava i cantanti al clavicembalo.
Per i numerosi spettacoli ivi allestiti, la Cavallerizza era considerata alla stregua di un teatro, operativo fino al 1735, quando fu chiuso e trasformato in saponificio. Il teatro fu poi riaperto nel 1750 e rimase attivo fino alla caduta della Repubblica.
In fondo alla Cavallerizza c'era la Calle della Gorna, oggi inglobata nella struttura dell'Ospedale Civile, un tempo direttamente collegata alle Fondamenta Nuove. In questa calle si trovava l'appartamento occupato da Giacomo Casanova dal marzo al 25 luglio 1755, giorno del suo arresto. L'immobile apparteneva ad una vedova con due figlie e la maggiore di esse, diciottenne, era in cura da lungo tempo dal medico Righellini per una strana forma di apatia accompagnata da gran debolezza. Il medico, parlando con Casanova, suggerì che la vera medicina per guarirla sarebba stata un buon amatore... e Giacomo la guarì perfettamente!

giovedì 1 settembre 2011

Divertimenti veneziani

I luoghi prediletti dai veneziani per i loro divertimenti erano i casin, detti anche ridotti. Questi erano delle piccole case o soltanto delle stanze, dove i veneziani restavano fino all'alba per divertirsi giocando d'azzardo o intrattenendosi con delle cortigiane.
Tra i ridotti più importanti c'era quello aperto nel Palazzo Dandolo a San Moisè nel 1638, gestito dallo Stato, tanto celebre da essere chiamato semplicemente "Il Ridotto". Al suo interno vi erano molti tavoli in fila, in ognuno dei quali era seduto un nobiluomo (i barnabotti) che teneva il banco con zecchini e ducati, in attesa dei giocatori. Potevano giocare i nobili o chiunque portasse una maschera. La più usata era senz'altro la bauta, che permetteva di celare agevolmente la propria identità.
La fama del Ridotto si sparse in tutta l'Europa, tanto che gli stranieri più facoltosi che passavano per Venezia, accorrevano a visitarlo, fra tutti ricordiamo Federico IV re di Danimarca. Cliente fisso ne era Giacomo Casanova.
Al Ridotto si giocava alla Bassetta, al Faraone e a tutti quei giochi d'azzardo nei quali i frequentatori si accanivano, sperperando intere fortune e arrivando perfino a privarsi di effetti personali, quali orologi, anelli, collane o, i più disperati, anche della moglie! Una delle regole del Ridotto era quello di giocare in silenzio: interi patrimoni cambiavano proprietà, arricchendo qualcuno e riducendo sul lastrico qualcun altro, nell'assoluto silenzio.
Negli ultimi anni della Repubblica si contavano in città 136 casin, tra pubblici e privati. Alcuni casin erano dei veri e propri postriboli, con letti eleganti, specchi e vasche da bagno in marmo, ma non tutti erano luoghi di perdizione, ve ne erano molti con accademie musicali, letture di poesie o semplici feste da ballo; ricordiamo ad esempio il Casin degli Spiriti presso Palazzo Contarini dal Zaffo, dove si svolgevano incontri letterari.

lunedì 7 febbraio 2011

Fare il Listòn

In ogni città esiste, o è esistito, un luogo pubblico dove passeggiare alla sera con gli amici, per mettersi un po' in mostra o cercare nuovi amori. A Venezia, città libertina per eccellenza, questa usanza esisteva già molti secoli fa.
Uno dei più antichi luoghi di queste passeggiate era quello di Campo Santo Stefano, già nel XVI secolo. In quel tempo il campo era erboso, salvo una striscia, una "lista" che era selciata e dove si poteva camminare comodamente avanti e indietro, chiacchierando e facendosi notare. Il passeggio serale si chiamò così listòn.
Si svolgeva principalmente nei giorni di festa e soprattutto a Carnevale (che a Venezia durava 5 mesi), cominciando verso le 22 e continuando fino a tarda notte. Per godersi il listòn o per riposarsi ogni tanto, venivano disposte delle sedie lungo il camminamento. Le dame sfoggiavano i vestiti, i monili più belli e le acconciature più complicate, lanciando sguardi ammiccanti ai cavalieri.
Con il passare del tempo il listòn si spostò in piazza San Marco, dove diventò stabile durante l'estate e le sedie venivano affittate per cinque soldi l'una. Qui alla sera un gran numero di dame sfilavano civettando con i loro cavalieri o con qualche sconosciuto, agghindate come meglio potevano. Il via vai era intenso, come intenso era il fitto intreccio di segnali, sguardi e sorrisi e quant'altro si potesse fare nei corteggiamenti.
Di queste passeggiate riferisce, naturalmente, anche Giacomo Casanova nelle sue "Memorie".

venerdì 9 luglio 2010

Magia a Venezia


“Ma veniamo all’inizio della mia esistenza di essere pensante. Al principio d’agosto del 1733 mi si sviluppò la facoltà della memoria. Avevo dunque otto anni e quattro mesi. Di ciò che può essermi accaduto prima di quella data, non serbo alcun ricordo. Ecco come andò la cosa.

Me ne stavo in piedi nell’angolo di una stanza, a ridosso del muro, con il capo e gli occhi fissi sul sangue che mi usciva in gran copia dal naso e scorreva a terra. Mia nonna Marzia, della quale ero il beniamino, mi si accostò, mi lavò il viso con acqua fredda e, all’insaputa di tutti i famigliari, mi fece salire con lei su una gondola e mi condusse a Murano.

Scendemmo dalla gondola ed entrammo in una catapecchia dove trovammo una vecchia seduta su un misero giaciglio, con un gatto nero in braccio e altre cinque o sei di queste bestie intorno. Era una fattucchiera. Le due vecchie tennero tra loro un lungo conciliabolo di cui io dovevo essere il soggetto. Alla fine del dialogo, che si svolse in dialetto friulano, la strega, ricevuto che ebbe da mia nonna un ducato d’argento, aprì una cassa, mi prese tra le braccia, mi ci mise dentro e mi ci chiuse, raccomandandomi di non aver paura. In verità era proprio il modo di farmela venire, se solo avessi avuto un barlume di coscienza, ma ero come inebetito. Così me ne stetti cheto, con il fazzoletto pigiato sul naso perché perdevo sangue, del tutto indifferente al baccano che mi giungeva da fuori. Sentivo alternativamente ridere e piangere, gridare, cantare e picchiare sulla cassa.

Mi tirarono finalmente fuori e il mio sangue ristagnò. Allora, quella donna straordinaria, dopo avermi fatto una quantità di carezze, mi spoglia, mi adagia sul letto, brucia degli aromi, ne raccoglie il fumo in un lenzuolo, mi ci avviluppa strettamente, mi recita scongiuri, poi mi libera e mi dà da mangiare cinque confetti di gusto molto gradevole. Subito dopo mi sfrega le tempie e la nuca con un unguento che esala un soave profumo e mi riveste. Mi dice che la mia emorragia sarebbe andate sempre diminuendo, a patto che non raccontassi ad anima viva ciò che aveva fatto per guarirmi, e mi minaccia invece della perdita di tutto il sangue e della conseguente morte nel caso osassi svelare a qualcuno i suoi segreti.

Dopo avermi così catechizzato, mi predice per la notte la visita di un’incantevole dama, dalla quale sarebbe dipesa la mia felicità, se fossi stato capace di non dire a nessuno di averla ricevuta. Quindi, io e la nonna partimmo e facemmo ritorno a casa.

Appena a letto, mi addormentai senza neanche ricordarmi della dolce visita che dovevo ricevere; ma quando mi sveglia qualche ora dopo, vidi o credetti di veder scendere dal camino una splendida donna in crinolina, tutta elegante e con in testa una corona costellata di pietre preziose che mi pareva mandassero faville infuocate. A passi lenti e con un’aria dolce e maestosa, venne a sedersi sul mio letto. Trasse di tasca alcune scatolette e me ne rovesciò il contenuto sul capo, mormorando alcune parole. Quindi, dopo avermi rivolto un lungo discorso, di cui non compresi una parola, e dopo avermi baciato sulla testa, se ne andò per dove era venuta, e io mi riaddormentai.”

(Memorie di Giacomo Casanova)

martedì 25 maggio 2010

Amori dimenticati, fedelmente raccontati

Dopo aver studiato diritto a Padova, a quindici anni Giacomo Casanova (1725-1798) ricevette gli ordini minori dalle mani del patriarca di Venezia. Ora portava la tonaca, e anche la tonsura, che lo facevano riconoscere per chierico. La gente vedeva già in lui un sacerdote, sua nonna persino un apostolo! Era fiera del nipote, che con la sua vocazione spirituale assicurava a se stesso e all’intera famiglia la salvezza dell’anima.
Il giovane chierico deve tenere la sua prima predica nelle chiesa di San Samuele. Tema prescelto, alcuni versi di Orazio, ma il curato Tosello non approva la proposta: la chiesa non è luogo per poeti pagani. Presto però si presenta al giovane una nuova occasione per farsi valere come predicatore: il 19 marzo 1741, alle quattro del pomeriggio, salirà sul pulpito per tenere la predica festiva in onore di San Giuseppe, il casto sposo della Vergine Maria. Casanova prepara la predica e la impara a memoria, ripetendola la sera prima di andare a letto e la mattina appena sveglio. Non ha problemi con la memoria, lo si è già visto a scuola.
Ma proprio il giorno della festa di San Giuseppe viene inviato a pranzo dal conte di Monreale. Il pranzo è buono e altrettanto il vino. Casanova sta per dimenticare la predica. Un messo viene a prenderlo, e Casanova giunge in chiesa appena in tempo.
Ecco che il giovane chierico si trova sul pulpito, appesantito dal pranzo e dal vino, davanti ai volti della parrocchia riunita. Riesce a dire appena l’esordio, poi perde il filo, si inceppa. I fedeli bisbigliano, trattenendo a stento le risate. A questo punto Casanova si fa prendere dal panico, perde la testa e dimentica la predica appresa così faticosamente a memoria. Evita l’imbarazzo con uno svenimento, mezzo vero e mezzo simulato, e stramazza sul pulpito. Viene portato privo di sensi in sagrestia. Il disastro è completo e Casanova, cui l’oblio fu così fatale, prende una decisione definitiva: “Ebbi la forza di persistere nella decisione di non saggiare più quel mestiere”.
La via è libera alla vocazione erotica di Casanova.
Anch’essa inizia con il curato Tosello o, per meglio dire, con sua nipote Angela. Giacomo ama Angela, Angela ama Giacomo ed è anche disposta a diventare sua moglie, ma fino a quel momento sorveglia “come un drago” la sua virtù e non concede all’amante il benché minimo favore. L’”avarizia” di Angela finisce per sconvolgere l’amante, la sua astinenza lo prosciuga. L’amore diventa un tormento, deve dimenticare “per qualche tempo i rigori della crudele Angela”.
Lo aiuta in questo un soggiorno in campagna.
Di ritorno a Venezia si riaccende in lui la passione temporaneamente sopita per Angela. Casanova ricomincia ad incalzarla con le sue voglie, ma la donna rimane risoluta. Casanova lascia furioso la città e torna a Padova per laurearsi, ma soprattutto per dimenticarla. Il titolo universitario non basterà allo scopo, ma a dimenticare lo aiuteranno in modo molto più efficace, al suo ritorno a Venezia, la sedicenne Nanette e la quattordicenne Marton. La notte è abbastanza lunga per divertirsi sotto le coperte con le due compagne, per fargli provare un piacere di cui godeva per la prima volta in vita sua, e per dimenticare “definitivamente” Angela: “J’oublie Angéla”.

Tutto questo lo veniamo a sapere dalla sua autobiografia, scritta in francese e pubblicata in edizione postuma con titolo Histoire de ma vie (1825), che egli terminò nel 1797, a settantadue anni, nel castello boemo di Dux. Una delle caratteristiche e dei paradossi più affascinanti di queste ‘confessioni’ è che Casanova si ricorda anche, e con la massima precisione, delle circostanze del vari oblii.
Per poter scrivere questi ricordi, da vecchio, lontano dagli affari mondani, Casanova rafforzò per tutta la vita la memoria (che una sola volta, come s’è visto, l’aveva piantato in asso) con note e molte lettere da lui scritte o ricevute. In questo modo potè ricordarsi delle innumerevoli donne da lui amate nel corso della vita, anche se non si vantò mai del numero delle sue avventure amorose. Casanova non è Don Giovanni, e non trae piacere dalle conquiste in sé, ma tutte le donne, a cui a fatto instancabilmente la corte, le ha amate, una dopo l’altra.
E’ vero che in ognuna delle nuove avventure amorose, Casanova cerca sempre nuovi piaceri dei sensi, ma ad eccitarlo non è ciò che in questo gioco si ripete sempre uguale, bensì ciò che ogni volta soddisfa la sua curiosità in modo diverso. Un bibliofilo come Casanova vuol leggere ogni donna come un libro, e questo significa che, come il lettore, prima di aprire un nuovo libro, deve chiuderne un altro. Così tra due amori, come tra due letture, si trova una cesura che nel linguaggio erotico di Casanova è chiamato oblio, e tuttavia un tipo di oblio che non esclude più tardi il ricordo.


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