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giovedì 22 dicembre 2016

Il doge di Venezia non veniva pagato

Nessun doge di Venezia, così come nessun'altra carica pubblica elettiva di alto e di altissimo livello ai tempi della Serenissima, percepiva alcun compenso per i servigi che rendeva allo Stato; servire la Repubblica era un dovere e un onore, e dare il meglio di sé per Venezia era quanto di migliore si potesse fare nella vita.
Anche per questo, in genere, il doge veniva eletto tra i nobili dotati di maggior patrimonio personale: essere a capo della Serenissima era infatti senz'altro un onore grandissimo, ma anche un onere fortissimo.
Il doge versava i contributi allo Stato alla pari di ogni altro nobile e non poteva essere omaggiato con il bacio della mano o con la genuflessione. Non poteva avere alcuna statua a lui dedicata: il culto della personalità era rigorosamente vietato, e in linea generale, per ogni decisione che riteneva di dover assumere - specialmente quelle importanti - subiva le attenzioni e le ingerenze della Signoria.
Il doge era una sorta di prigioniero a Palazzo Ducale: non poteva accrescere in alcun modo i poteri che gli erano stati conferiti; non poteva ricevere di sua iniziativa nessuno, in veste ufficiale, né spedire autonomamente lettere di Stato o riceverne. Non poteva fare donazioni, se non all'interno della sua stessa famiglia, e in ogni caso non poteva riceverne.
Non poteva più curare i suoi interessi mercantili ed economici (un po' quello che succede con il cosiddetto blind trust che viene applicato ai presidenti degli Stati Uniti) e ogni suo tentativo di influenza nelle nomine delle varie magistrature sarebbe stato oggetto delle cure delle Magistrature di Stato.

(Estratto dal nuovo libro di Alberto Toso Fei: "Forse non tutti sanno che a Venezia...")

martedì 6 marzo 2012

Palazzo Tiepolo e l'impresa audace di Sansovino

All'angolo tra Rio Noale e Rio San Felice si nota un giardino murato. Anticamente quell'area era occupata da un palazzo di proprietà di Alvise Tiepolo, Procuratore di San Marco.
Francesco Sansovino, nel suo libro Venetia, città nobilissima et singolare, descritta in XII libri, racconta dell'impresa audace del padre Jacopo: "... consumato dal tempo, il palazzo fu con artifitio non più per avanti udito, rifondato di sotto, mentre chi si abitava di sopra, senza moto alcuno e con meraviglia della città; poi che stando la fabbrica in piedi, e sostenendola in aria, si possono gettar nuove fondamenta senza disconcio degli abitanti, e ciò fu ritrovato dal Sansovino". Possiamo a stento immaginare lo stupore dei veneziani nel vedere simile opera!
Giustiniano Martinioni ricorda che nella seconda metà del Seicento in questo palazzo abitava il senatore Marino Tiepolo. In un'incisione di Domenico Lovisa (1720) si evidenzia come l'intervento del Sansovino si fosse limitato ai piani inferiori che presentavano linee cinquecentesche a differenza del piano superiore gotico.
Il Palazzo Tiepolo venne distrutto a fine Settecento.

lunedì 14 novembre 2011

Le Venezie invisibili

"Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D'abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d'accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell'Augusto Sonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza.
- Dimmi ancora un'altra città - insisteva.
- Di là l'uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... - riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d'un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d'arrendersi. Era l'alba quando disse:
- Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco.
- Ne resta una di cui non parli mai.
Marco Polo chinò il capo.
- Venezia - disse il Kan.
Marco sorrise: - E di che altro credevi che ti parlassi?
L'imperatore non batté ciglio. - Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.
E Polo: - Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia
- Quando ti chiedo d'altre città, voglio sentirti dire di quelle, e di Venezia, quando ti chiedo di Venezia
- Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia
- Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com'è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei.
L'acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell'antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano.
- Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano - disse Marco - Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco."
(Italo Calvino)

lunedì 3 ottobre 2011

Teatro Verde sull'Isola di San Giorgio Maggiore

Detta l'Isola dei Cipressi , San Giorgio Maggiore ospita un luogo singolare al quale si accede dalla Fondazione Giorgio Cini, penetrandovi idealmente attraverso una delle tre porte che danno accesso al convento le quali si scorgono osservando l'isola dalla riva opposta, secondo il progetto dell'architetto rinascimentale Giambattista Bregno (1508), sottostante il rilievo marmoreo di San Giorgio a cavallo.
Secondo il romanzo esoterico Hypnerotomachia Poliphili, pubblicato da Aldo Manuzio nel 1499, il significato delle tre porte è, per il neofita, il seguente: la prima porta Gloria Dei, la seconda Mater Amoris, la terza Gloria Mundi.
Progettato nel 1952 da Luigi Vietti e Angelo Scattolin, il Teatro Verde è invece un'opera moderna caratterizzata da un esasperato classicismo, che se riprende la forma del teatro greco da una parte, dei teatri di "verzura" delle ville venete, assume dall'altra, in virtù delle gradinate di pietra e della corona di cipressi secolari, un tratto decisamente sepolcrale e funereo.
Caduto in disgrazia dopo memorabili rappresentazioni notturne di Romeo e Giulietta e della Carmen di Bizet, lo straordinario anfiteatro di 1500 posti, con palcoscenico di 56 metri sul fronte e 210 metri quadri complessivi, giace oggi in completo abbandono. Tuttavia gli alti spiriti che ancora aleggiano nell'atmosfera del Teatro Verde sono quelli di Gabriele D'Annunzio e di Eleonora Duse (le cui lettere sono conservate negli archivi della Fondazione Cini), in particolare riecheggiano ancora le rappresentazioni de La Nave e La Città morta (perché secondo certe indicazioni contenute nel romanzo Il Fuoco, la tragedia d'ambientazione archeologica si sarebbe configurata nella mente dell'autore durante una passeggiata meridiana per Venezia): "Entravano nel campo San Cassiano deserto sul suo rio livido, e la voce e i passi echeggiarono come in un circo di rupi, chiaramente, nel rombo che veniva dal Canal Grande come da un fiume...".
Il Teatro Verde riprende, nella cornice buia e priva di rumori esterni, la condizione notturna in cui ebbe a sprigionarsi dalla mano cieca di D'Annunzio, nell'inverno caliginoso del 1916, la più tenue e duratura fiammella del fantastico veneziano.

venerdì 8 luglio 2011

La sindrome di Baron Corvo

Il problema della casa ricorre nella tormentata esperienza di Frederik Rolfe (Baron Corvo). Considerato a distanza di tempo come la cattiva coscienza della puritana colonia anglosassone della Venezia fin de siècle, Corvo fu il primo ad ammettere di essersi stabilito a Venezia senza alibi, pure tra tanti diplomatici, accademici, borsisti, etc. Ma a caro prezzo. In verità il suo romanzo autobiografico è un libro di protesta, l'autentica e unica difesa delle "genti disperse".
"Venezia, serenamente difesa dalla sua laguna, non è città dove Lazzaro possa nascondere le sue piaghe... Dio dammi una casa!".
Inutile quindi cercare una targa che ricordi la dimora veneziana di Baron Corvo , giacché viveva "baraccato" in una vecchia gondola; barone illustre e letterato, naufrago volontario a Venezia.
In un suo racconto Renato Pestriniero ha ricostruito magistralmente il processo di scelta della marginalità e il conseguente adattamento alle condizioni atipiche della città di un barbone che spesso è uno scomparso a Venezia: "E così,  quando l'alba sommerse un altro ultimo giorno di Carnevale, non presi il solito aereo per Milano. Non potevo più vivere in un mondo che non sentivo mio, anche se si trattava del mondo vero, quello che mi assicurava una vita brillante. Dovetti fare una scelta. Da una grossa borsa sportiva ricavai un contenitore che incastrai nello scheletro di una vecchia carrozzina. Ci misi la maschera e pochi altri oggetti, distrussi ogni documento di identificazione. Per il mondo svanii. Tutto il mio mondo materiale è in questo carrello al quale ho aggiunto un paio di piccole ruote per superare facilmente gli oltre quattrocento ponti che scavalcano i canali".


(Fonte: Brusegan)

giovedì 9 giugno 2011

Marin Sanudo e le cronache veneziane

Senatore della Repubblica Serenissima e storiografo, Marin Sanudo nacque e mori a Venezia (1466-1543). Abitò nel sestiere di Santa Croce, sulla Fondamenta del Megio (cioè del miglio, per via del grande magazzino ivi presente).
Fu un importante cronachista della vita veneziana, che descrisse accuratamente in ben 58 volumi. Si occupò di vicende politiche, economiche e militari, ma anche quotidiane e di costume dell'epoca.
I volumi, che vennero pubblicati col titolo di Diarii ed erano composti in lingua veneziana, sono tutt'oggi una fonte inesauribile di notizie per qualunque studioso di storia veneziana, ma anche un semplice lettore vi può trovare innumerevoli particolari e curiosità. La sua scrittura è semplice e diretta, e priva di retorica alcuna.
Marin Sanudo fu anche autore di altre imprese letterarie: Le vite dei Dogi, Itinerario per la terraferma veneziana, De situ et magistratibus urbis Venetae, anch'esse fonti notevoli di informazioni.
Egli possedeva inoltre un'importante biblioteca privata di opere manoscritte e a stampa (tra cui le Cronache di Altino e alcune opere di Poliziano ed Ovidio edite da Aldo Manuzio), molto ammirata dai sui contemporanei, che purtroppo però è andata dispersa con i saccheggi napoleonici.
Nel 1531 il Senato gli concederà un vitalizio di 150 ducati l'anno come riconoscimento dell'alto valore della sua opera.

lunedì 11 ottobre 2010

Liber Mutus

Il Liber Mutus rappresenta il più famoso ed enigmatico testo alchemico. Il libro tratta del processo psicologico di realizzazione del sé proiettato dagli alchimisti nella trasmutazione della materia, la ricerca dell'immortalità, simbolizzata dall'oro, nel Lapis Philosophorum, e nell' elixir vitae.
In sole 15 tavole, sono illustrate tutte le operazioni fondamentali della Grande Opera attraverso un insieme di immagini allegoriche, ricche di dettagli, il cui simbolismo il lettore è chiamato ad interpretare. Il linguaggio iconografico è considerato sufficiente di per sé a comunicare quei segreti che è impossibile esprimere per mezzo della parola.
Le uniche frasi scritte si trovano nella prima, nella penultima e nell'ultima tavola. Nella prima tavola leggiamo: "Il Libro Muto, nel quale l'intera filosofia ermetica viene rappresentata in forma di figure geroglifiche, consacrato a Dio misericordioso, tre volte massimo ottimo, e dedicato ai soli figli dell'Arte, da un autore il cui nome è Altus".
Le enigmatiche serie di numeri e di sigle che seguono vanno lette al contrario (da destra a sinistra) e si rivelano essere dei riferimenti a specifici versetti biblici.
Nella penultima tavola, in fondo, leggiamo: "Prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e troverai": consiglio singolare per un libro in cui non c'è praticamente nulla da "leggere" in senso stretto, eppure è un invito prezioso a ricavare dalle immagini quegli insegnamenti che la parola non potrebbe comunicare.
Nell'ultima tavola, i due filatteri che escono dalla bocca dell'uomo e della donna inginocchiati di fronte alla gloria dell'alchimista recano le parole: "Dotato di occhi chiaroveggenti te ne vai".
La prima edizione stampata del Liber Mutus fu pubblicata a La Rochelle nel 1677. Le tavole, ridisegnate e migliorate dal punto di vista grafico, furono poi incluse nella monumentale Biblioteca Alchemica Curiosa di Manget (Genève, 1702). Seguirono quindi varie riedizioni del libro, tra le quali merita una menzione particolare una versione a colori, ritrovata in un manoscritto della fine del XVIII secolo custodito alla "Library of Congress" di Washington.
Una preziosa copia della versione manoscritta originale fu portata a Venezia da Joserf Nassì e nascosta nel giardino segreto di Melchisedec dietro alla Schola Levantina in Ghetto Vecchio...




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lunedì 27 settembre 2010

Le profezie di San Malachia

San Malachia era un monaco benedettino irlandese vissuto nell'XI secolo. Nato ad Armagh nel 1094, ancora adolescente divenne l'abate del proprio convento. Cominciò ad avere visioni nel 1139, in occasione del suo primo viaggio a Roma. Dopo questa visita Malachia O'Morgair scrisse le proprie profezie, composte da 111 frasi in latino, corrispondenti a 111 pontificati, da quello di Celestino II (1143-1144) fino all'ultimo pontefice, Petrus Romanus. Il penultimo è l'attuale pontefice, Benedetto XVI.
Secondo la profezia con l'ultimo papa Petrus Romanus, che secondo alcuni sarà portoghese, la Chiesa Cattolica Romana concluderà la propria esistenza.
San Malachia morì il giorno da lui stesso predetto: il 2 novembre 1148, a Chiaravalle, presso il suo grande amico San Bernardo da Chiaravalle.
Le sue Profezie vennero archiviate in Vaticano e pubblicate parzialmente la prima volta a Venezia solo nel 1527. La lista completa delle profezie venne poi pubblicata, sempre a Venezia, da Arnold Wion nel 1595. La scelta di pubblicare le Profezie di San Malachia a Venezia dipese sia dalla grande libertà di stampa ivi presente, sia per la presenza della più grande industria editoriale e tipografica d'Europa.
Questi sono i papi veneziani da lui profetizzati e realmente accaduti:
- Gregorio XII (1406-1415) (Angelo Correr): "Nauta de ponte nigro" [marinaio del Ponte Nero] Angelo Correr fu infatti anche vescovo dell'Isola di Negroponte, allora possedimento veneziano
- Eugenio IV (1431-1447) (Gabriele Coldumer): "Lupa coelistina" [lupa celestina] La lupa appare sullo stemma di Siena, città di cui fu vescovo, e dove faceva parte dell' Ordine dei Celestini
- Paolo II (1464-1471) (Pietro Barbo) "De cervo et leone" [del cervo e del leone] Egli fu vescovo di Cervia ("cervo") nei pressi di Ravenna, mentre il leone è chiaro simbolo marciano
- Alessandro VIII (1689-1691) (Pietro Vito Ottoboni) "Poenitentia gloriosa" [penitenza gloriosa] Allusione alla vita penitente di San Bruno, commemorato il 6 ottobre, giorno in cui Pietro VIto Ottoboni fu eletto Papa
- Clemente XIII (1758-1769) (Carlo della Torre Rezzonico) "Rosa Umbriae" [rosa dell'Umbria] Carlo fu governatore dell'Umbria, regione di San Francesco d'Assisi, "Rosa" della Cristianità
- Pio IX (1903-1914) (Giuseppe Melchiorre Sarto) "Ignis ardens" [fuoco ardente] Forse in riferimento al fatto che quando iniziò la Prima Guerra Mondiale Pio IX voleva assolutamente recarsi al fronte per impedire i combattimenti
- Giovanni XXIII (1958-1963) (Angelo Giuseppe Roncalli) "Pastor et Nauta" [pastore e marinaio] che condusse la Chiesa in una nuova direzione

L'attuale Papa Benedetto XVI, è descritto come "De gloria olivae". Il motto "De gloria olivae" è stato collegato al nome "Benedetto" perché alcuni benedettini  sono anche chiamati "monaci olivetani". Da notare che nell'araldo del Papa è raffigurata un persona di colore sul lato sinistro del simbolo della Diocesi di Frisinga di cui Ratzinger fu arcivescovo. Il termine "olivae" è stato collegato al colore di questo viso di moro. Il 26 aprile 2009 Benedetto ha proclamato santo Bernardo Tolomei, fondatore dell'ordine degli Olivetani.

Alcuni interpreti del testo di Malachia ritengono che Petrus Romanus non si riferisca ad un Papa successivo a questo ma a San Pietro, il primo Papa della storia, quindi l'ultimo papa sarebbe quello attuale...




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Version française

(Fonte: P.Zoffoli)

venerdì 2 aprile 2010

Aldo Manuzio e l'arte della tipografia nel Rinascimento

Aldo Manuzio (Velletri 1449 - Venezia 1515) è considerato il più importante tipografo del Rinascimento nonché il primo editore in senso moderno.
Giunto a Venezia intorno al 1490 aprì la sua tipografia a Sant'Agostin, e il suo logo (qui a fianco) rappresentava un'ancora e un delfino, con il motto 'festina lente' cioè 'affrettati con calma'. La sua ambizione era preservare la letteratura greca e latina dall'oblio, diffondendone i capolavori in edizioni stampate.
In tutto Manuzio stampò circa 130 opere, in greco, in latino e in volgare, fra le quali anche opere di contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, ma soprattutto i grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Luciano, a Catullo, a Virgilio, a Ovidio, a Omero e molti altri.
Ma il suo vero capolavoro fu l' Hypnerotomachia Poliphili, sogno di qualunque bibliofilo, pubblicato nel 1499 e corredato di 170 splendide xilografie (una copia è conservata alla Biblioteca Marciana).
Manuzio è ricordato anche per la creazione del carattere corsivo, detto anche 'italico', e per l'utilizzo della stampa 'in ottavo' che rese i libri, per la prima volta, maneggevoli, leggeri e quindi facilmente trasportabili.
Fondò, inoltre, l'Accademia Aldina insieme a Pietro Bembo, il cui intento era di dare impulso allo studio dei classici greci in Italia ed in Europa.
L'arte del Manuzio ebbe così vasta eco anche grazie all'amore e all'interesse che i veneziani sempre dimostrarono per i libri. Per darne un'idea: nel Cinquecento in città si contavano circa 200 tipografie, più di quante ne avevano Parigi e Lione insieme (Firenze ne aveva 22, Roma 37). Il libro veneziano inoltre era particolarmente apprezzato per la qualità della stampa e la rilegatura raffinata quanto durevole, tanto che quando un libro si presentava di particolare pregio si diceva 'legato alla veneziana'