martedì 29 giugno 2010

Quiz veneziano

Quiz per veri esperti di Venezia:
su quale edificio si trova la patera qua a fianco?

(la risposta giusta, se nessuno indovina prima, sarà data domani)

lunedì 28 giugno 2010

Qualcuno dice che Venezia sta morendo...

L'altra sera ero a cena da una cugina di mia mamma che abita vicino a San Pietro in Castello.
Nata e cresciuta in campagna si trasferì a Venezia una ventina d'anni fa. All'inizio era preoccupata, temeva di non riuscire, abituata com'era alla campagna, ad adattarsi alla città.
Oggi dice che non andrebbe via da Venezia per nessun motivo al mondo.
Le ho chiesto perché, e lei mi ha risposto così:
"Perche qui non mi sento mai sola. Quando esco trovo sempre qualcuno che conosco e anche se incontro persone sconosciute ci si saluta e si scambiano due parole. C'è solidarietà tra vicini di casa, ci si aiuta. Nel campo sotto casa ci sono sempre i bambini che giocano (tra di loro, non con i videogame... nda), senza pericoli di sorta, e ogni tanto si organizzano feste alle quali partecipano anche tanti giovani"
Vi sembra la descrizione di una città che sta morendo??

giovedì 24 giugno 2010

Venezia e il suo mito

"Nobilissima" qualifica Venezia, nel titolo della sua celebre guida uscita nel 1581, Francesco Sansovino (figlio del più noto architetto Jacopo), volendo, nell'aggettivo, fondere l'idea di bellezza eletta con quella di gestione politica socialmente selezionata. Non solo: Venezia è anche "singolare". In effetti la singolarità sembra il connotato principe della città. Spiccatissima la sua individualità, percepita via via come unica, irripetibile, strana, turbante.
Un ambiente insomma non omologabile. Persino i suoi abitanti paiono una sorta d'anomalia antropologica: essi non arano, non seminano, non vendemmiano. I suoi nobili non hanno niente in comune coi tratti costitutivi dei ceti nobiliari: questi suppongono possesso di terre e castelli con prerogative feudali, quelli invece navigano e mercanteggiano. Già la lettera di Cassiodoro evoca la stranezza di un popolo le cui case hanno legata fuori dall'uscio un'imbarcazione al posto del cavallo.
Nel secolo XIV Frà Nicolò da Poggibonsi si emoziona alla vista di "Vinegia, fatta in altro modo, con le strade che sono canali d'acqua". Sempre l'acqua campeggia, quasi confondendosi e confrontandosi col cielo, attorno e dentro, cornice e sostanza, habitat biofisico. Diaframma e sutura le pietre tra specchio liquido e volta celeste. In questo sta la sua diversità di facies urbana reale e irreale, in certo qual modo alternativa e perciò sempre più caricabile di significati, sempre più satura di stimoli,  sempre più dislocabile sul versante dell'immaginazione. Si dilata, nel definirsi modellarsi e complicarsi della sua forma, a dimensioni esistenziali estreme, da quelle dell'amore a quella della morte.
Venezia è se stessa e, nel contempo, è sempre qualcos'altro, è sempre ulteriorità possibile.
I dotti fuggiti da Costantinopoli caduta, nel 1453, in mano turca v'approdano come ad una seconda Bisanzio, gli umanisti la salutano come un' Atene rediviva.
S'attivano altresì, in sintonia col concreto esercizio del potere, i due meccanismi ideologici più efficaci: quello della presupposizione della sua legittimità e bontà e quello, conseguente, della sua valorizzazione: mitizzabile e perciò mitizzata.
C'è la convinzione del superiore destino della città: essa si sente una seconda Roma, anzi di Roma migliore perché senza le agitazioni sociali del periodo repubblicano, senza le dispotiche degenerazioni di quello imperiale.
L'aristocrazia lagunare non ha remore in fatto di autogratificazione: il suo governo non è soltanto il migliore tra gli esistenti, ma anche tra i concepibili. Essa è la "città felice", la "vera forma di perfetto governo", sintetizza Paolo Paruta.
Ma se il mito del perfetto reggimento politico finisce con lo sfaldarsi nell'età dei lumi, resiste quello della città di sogno appagante e anticipante le fantasie dei poeti. Rimane lo scenario urbano con tutta la sua carica di suggestioni psichiche.
La storia, si può obiettare, bada ai fatti, non s'attarda con ideologismi mitizzatori, né con fantasticherie esistenziali. Ma sarebbe ingiusto applicare a Venezia un'ottica così riduttiva: sfuggirebbero persino i meri fatti. Anzi, mito e realtà, verità e deformazione, si confondono e si compenetrano inscindibilmente.
Le trine marmoree degli edifici specchiantisi nei canali e inquadrati dai campi, i labirintici andirivieni del tessuto viario, l'inarcarsi dei ponti, il rimbalzare delle voci tra pietre ed acque, il subitaneo subentrare del silenzio all'eccitato brusio, i colori movimentati nel cangiare della luce, sono anch'essi storia.
La città è anche quello che significa e che ha significato. Si monca la traccia della sua vicenda se si dimentica la trasformazione in mito della propria civiltà.
Di bellissime città è piena l'Italia, ma Venezia è anche paesaggio mentale, luogo dell'anima, referente attivo e passivo dell'immaginazione, involucro e contenuto per il desiderio.
Tutto ciò s'incorpora nella sua storia.
Proprio perché unica al mondo è la città di cui il mondo ha bisogno.
Senza di lei il mondo sarebbe più povero.

giovedì 17 giugno 2010

Il Mose e i problemi della Laguna di Venezia

Venezia ha dovuto combattere una millenaria battaglia contro le azioni esterne, assai più difficile di quella di qualunque altra città, e fino a tutto il Settecento la Repubblica Serenissima seppe mantenere il precario equilibrio per la sopravvivenza della città e della laguna. Oggi questa lotta si fa più complicata per l'azione di fenomeni nuovi, che ne intaccano fisicamente la struttura, per lo più di origine umana:
- il moto ondoso prodotto dai natanti a motore che corrode le fondazioni degli edifici e gli argini dei canali;
- l'inquinamento dovuto soprattutto (ma non solo) dagli scarichi degli insediamenti in terraferma;
- l'abbassamento del suolo derivante dall'emungimento intensivo del sottosuolo nell'area industriale di Porto Marghera (è stato calcolato un abbassamento reale, in quest'ultimo secolo, del fondo della laguna di circa 30cm!);
- l'innalzamento del livello del mare.
Di tutti questi e di tanti altri problemi, quello delle acque alte è sicuramente il più drammatico. Si tratta di un fenomeno sempre esistito a Venezia, ma che nell'ultimo secolo ha raggiunto frequenze e altezze davvero preoccupanti.
A questo proposito bisogna ricordare quali sono le caratteristiche della laguna stessa: si tratta di uno spazio acqueo (circa 500 Kmq) separato dal mare dalle isole del litorale (Lido e Pellestrina), e ad esso collegata da tre aperture (dette bocche): del Lido, di Malamocco e di Chioggia. Attraverso queste bocche l'acqua del mare entra ed esce seguendo il ritmo delle maree (e cioè due volte al giorno) assicurando l'indispensabile ricambio per la sopravvivenza della Laguna.
Si tratta quindi di un sistema precario da sempre assicurato dalle vigili attenzioni della Repubblica. Equilibrio che negli ultimi tempi è venuto meno per una serie di ragioni concomitanti:
- l'abbassamento del suolo di cui si è detto poc'anzi;
- il maggior volume di acqua che entra dal mare dovuto allo scavo dei canali per il passaggio delle petroliere (...);
- la difficoltà per l'acqua che entra in laguna di espandersi liberamente per il fatto che molte aree barenose sono state convertite ad altri usi (zone industriali di Marghera, il nuovo aeroporto Marco Polo, ecc.) o trasformate in valli da pesca impedendo comunque la libera circolazione delle maree;
- il mancato dragaggio dei canali effettuato dalla Repubblica per mille anni e interrotto a partire dal 1800.
Una situazione grave quindi che avrebbe richiesto una soluzione agente su piani diversi:
- puntando al recupero altimetrico del fondo della laguna (uno dei progetti presentati prevedeva l'iniezione di una schiuma espandente nelle cavità del sottosuolo svuotate dalle industrie di Porto Marghera per recuperare quei 30 cm persi);
- riducendo i volumi d'acqua scambiati tra mare e laguna, ottenibile attraverso un ridimensionamento delle sezioni delle tre bocche di porto;
- migliorando la penetrabilità acquea con la riapertura delle casse di colmata della zona industriale;
- il ripristino della pratica di dragaggio dei canali.
Ma alla fine si è scelta una soluzione diversa. Si stanno costruendo delle enormi paratie mobili sul fondo delle tre bocche di porto, che normalmente staranno sul fondo e che in caso di notevoli alte maree (oltre 110cm) si sollevano e separano il mare dalla laguna. Stiamo parlando del "Mose" (acronimo di MOdulo Sperimentale Elettromeccanico)
In pratica stiamo spendendo milioni miliardi di euro per costruire un opera immensa che servirà solo poche volte all'anno (cioè quando le previsoni dell'acqua alta in città supereranno i 110cm) e che nel caso in cui davvero il livello del mare (come sembra ormai confermato) dovesse continuare ad alzarsi, dovrà separare in maniera definitiva la laguna dal mare facendola morire.
E' come se per aprire la porta di casa, di cui abbiamo accidentalmente dimenticato le chiavi, invece di chiamare un fabbro utilizzassimo un carro armato, con tutte le conseguenze del caso, da quelle economiche al risultato ottenibile.
Per approfondire: nomose

lunedì 14 giugno 2010

Festa di Sant'Antonio a Venezia

Giunta alla dodicesima edizione, la festa di S.Antonio a Venezia è ricordata per la suggestiva processione del Santo che si snoda per le vie della parrocchia di San Francesco della Vigna.
Il programma (dal 12 al 19 giugno) è nutrito di eventi: spettacoli, concerti, balli e tornei sportivi. Da non dimenticare lo stand gastronomico che sforna dal pesce fritto alla garne alla griglia, da succulenti primi a deliziosi dessert.
L'occasione è da annoverare tra le feste a quasi esclusiva partecipazione veneziana, giacché ben pochi turisti arrivano fin qua...
In particolare sabato sera il chiostro di San Francesco della Vigna ha ospitato un importante spettacolo di teatro di ricerca, realizzato dalla Compagnia Teatrocontinuo.

Se ancora qualcuno crede che Venezia sia una città morta dovrebbe venire a vedere quanti Veneziani partecipano a questa come ad altre feste cittadine!

Personalmente ho avuto la fortuna di assitere al bellissimo spettacolo teatrale di sabato sera, ed ho realizzato un piccolo servizio fotografico.

Riporto qui la presentazione dello spettacolo in questione:
Giganti sono coloro che cercano senza alternative, accettando la sfida della destabilizzazione che provoca l'incontro con lo sconosciuto, la trasformazione, il cambiamento; giganti sono acrobati sospesi sulla corda, il bilanciere tra le mani sudate, che passano all'altra parte con spirito leggero.
Lo spettacolo Giganti si configura come un viaggio, rilettura del passato e del presente, prendendo come pretesto la città di Venezia, immenso patrimonio di storia, cultura e umanità.
Venezia diventa nella finzione teatrale come un anziana Signora con problemi di salute e un eredità cospicua che alcuni vorrebbero dilapidare e altri si propongono di conservare: una sfida, quest'ultima, che solo dei Giganti riusciranno ad affrontare, gli stessi che al momento della sua fondazione hanno immaginato e costruito questa straordinaria città anfibia, Utopia dell'umanità.
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giovedì 10 giugno 2010

Pantalon

Uomo più che fatto, decisamente anziano, naso adunco, costume rosso, mantello nero, incarna il carattere di quei mercanti che piantarono la bandiera del Leone di Venezia in ogni angolo del Mediterraneo Orientale (da qui una delle etimologie:"pianta-leone"). In Pantalone la parsimonia può tramutarsi repentinamente in avarizia, la tenerezza senile in libidine, ma anche la severità in comprensione, soprattutto.
Tuttavia fuori del sistema di valori del Teatro dell'Arte, in cui ciascuna maschera ha una decisa connotazione regionale e sociale (per cui Pantalone è il padrone veneziano che parla in veneziano mentre lo Zanni o Arlecchino sono servitori che, provenienti dall'entroterra, si esprimono nel loro rustico dialetto), è difficile riscontrare un qualche elemento di storicità in questa maschera tranne che nell'ambito cittadino cinquecentesco. Tuttora assai apprezzata dal pubblico di tutto il mondo, la Commedia dell'Arte sembra giunta già da lungo tempo al capolinea proprio in Italia e in particolare a Venezia, dove è coltivata da poche compagnie amatoriali o semiprofessionali, laddove al contrario occorrerebbe forse un intervento pubblico per difendere quello che della tradizione ancora resiste (almeno negli archivi e nelle biblioteche). Fatto sta che, salvo rare eccezioni o presenze di grandi attori (come Dario Fo nel Festival della Biennale Teatro del 1985), gli attori che vogliono studiare le maschere dell'Arte devono riparare alle scuole transalpine, così come fecero già a lor tempo gli Arlecchini di Giorgio Strehler, Mario Moretti prima e Ferruccio Soleri dopo.
Ma per Pantalone è diverso: la mimica è ridotta ad un andamento incerto che cerca spesso sicurezza nel bastone e si guarda intorno in modo sospettoso, e quel che più conta è la parola, a volte assai tagliente soprattutto nei confronti dei giovani e delle donne.
Quella che occorre quindi per un Pantalone che sia degno erede di Cesco Baseggio e di Nico Pepe, è una formazione fortemente locale. Nato a Udine nel 1907 e scomparso all'età di ottant'anni, Pepe si considerò un vero missionario del teatro dell'Arte al quale dedicò fino alla fine grandi stage spettacolari, trascinando di città in città, come gli antichi capocomici, un baule ricolmo di maschere. Scoperto anche lui nel '47 da Strehler per la memorabile edizione di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, Pepe coltivò senza sosta la maschera di Pantalone portandone a perfezione l'interpretazione, ma purtroppo senza creare un allievo degno del suo nome.
Singolare è invece la storia di un certo Giambattista Garelli, vissuto a Venezia nel '700, a tal punto straordinario nell'interpretare questa maschera, da diventarne infine prigioniero. Egli infatti veniva stipendiato annualmente dalla famiglia Vendramin perché non abbandonasse mai il teatro di San Salvador...

Fonti: M.Brusegan, A.Scarsella, M.Vittoria, G.Fuga, L.Vianello

martedì 8 giugno 2010

Le galee veneziane nel Quattrocento

Il Quattrocento rappresenta probabilmente l’apogeo del sistema delle galee veneziane, un sofisticato e articolato sistema di trasporto delle merci e dei passeggeri attraverso il Mediterraneo.
Ma cosa erano, e come navigavano le galee veneziane?

Prima di tutto, occorre ricordare che esistevano due tipi di galee, ben distinte tra loro: le «galee sottili», che erano destinate quasi esclusivamente alla guerra, e le «galee grosse» o «da mercato», che venivano impiegate per il trasporto di merci o passeggeri. Tuttavia, contrariamente a quanto spesso si crede e si legge, le galee da mercato non erano le uniche navi che viaggiavano sotto la bandiera di San Marco: anzi, la maggior parte della flotta mercantile, dal punto di vista numerico e da quello del tonnellaggio, era composta da navi a vela. Le galee da mercato invece, che erano navi costruite dallo Stato, venivano noleggiate ai nobili che organizzavano il viaggio raccogliendo le merci dei mercanti. Le galee viaggiavano in convogli composti da tre o quattro navi, la cui rotta era stabilita nei dettagli e non poteva essere modificata: le varie mude, così si chiamavano i convogli, percorrevano una o due volte l’anno i percorsi prestabiliti raggiungendo Costantinopoli e il mar Nero (muda di Romania), il medio Oriente (muda di Beirut e Alessandria), la Francia meridionale (muda di Aigues Mortes, porto alla foce del Rodano), l’Inghilterra e l’Olanda (muda di Fiandre) e infine la Tunisia e l’Algeria (muda al trafégo). L’importanza di queste navi consisteva nel fatto che avendo un equipaggio numeroso (almeno 250 uomini tra marinai e rematori) erano considerate estremamente sicure e quindi venivano destinate a trasportare i carichi più preziosi e più leggeri: le spezie, le sete, l’argento e l’oro.
Quando nel corso del Quattrocento i pellegrinaggi in Terrasanta conobbero una grande diffusione, Venezia organizzò ogni anno una o anche due galee destinate esclusivamente a trasportare i pellegrini in Palestina. Questa circostanza riveste un estremo interesse, perché alcuni di questi viaggiatori hanno scritto un resoconto dettagliato del loro viaggio che sono giunti fino a noi, consentendoci di ricostruire nei dettagli lo stile di navigazione di queste navi.

Le galee da mercato erano navi lunghe circa 37 metri al ponte (23 passi e 3 piedi veneziani, come spiegano i quaderni dei capimastri dell’Arsenale di Venezia) e larghe poco più di sei, con un’altezza di puntale tra i 2,5 e i 3 metri. La caratteristica più nota di queste navi è il fatto di essere dotate di circa 150 remi, ciascuno dei quali mosso da un solo uomo, e questo ha generato l’errata convinzione che usassero prevalentemente questo mezzo di propulsione. Niente di più errato. Anche se è vero che le linee d’acqua degli scafi delle galee sono simmetriche e dimostrano la loro derivazione da imbarcazioni a remi, di fatto le galee navigavano prevalentemente a vela e usavano i remi solo come propulsione d’emergenza.
Le prestazioni che potevano raggiungere sotto vela erano notevoli, come d’altra parte ci si può aspettare da navi con un coefficiente di finezza così buono. Con vento a favore potevano raggiungere comodamente i cinque o sei nodi di velocità; tuttavia, dai diari dei pellegrini che andavano in Terrasanta risulta che le navi percorrevano intere tratte a una media di oltre sette nodi.
Insomma, le galee da mercato erano sostanzialmente delle navi a vela. A cosa servivano allora i rematori?
Fondamentalmente, prima dell’avvento dell’artiglieria, servivano a difendersi. Come spiega lo storico americano Fredrick Lane, «per le galee da mercato la loro capacità di difendersi era seconda come importanza solo alla sua sicurezza in mare, giacché esse erano progettate per combinare non solo alcuni dei vantaggi delle navi a remi con quelli delle navi a vela, ma anche quelli di una nave da guerra con quelli di un mercantile. L'elevato numero di uomini necessari su una galea per manovrare i remi forniva la base per una forza combattente molto più numerosa di quella che poteva essere impiegata su una nave tonda. In tutto l'equipaggio di una galea da mercato contava più di 200 uomini, ciascuno dei quali poteva essere chiamato a prender parte alla sua difesa. Le armi per questo scopo venivano fornite dall'Arsenale e trasportate in un apposito locale della stiva».

I diari dei pellegrini permettono di ricostruire in modo abbastanza accurato la vita a bordo. Prima di tutto, chi intendeva compiere un viaggio in Terrasanta stilava un vero e proprio contratto, estremamente dettagliato, che precisava diritti e doveri delle due parti (ossia del viaggiatore e del patronus della galea). A bordo i pellegrini dormivano per lo più nella grande stiva della nave e, come scriveva nel 1484 Felix Faber (Urbis venetianae fidelis descriptio), si trattava di una «inquieta dormitione». I giacigli erano disposti per madiere, e i pellegrini dormivano con il capo verso la murata e i piedi verso il centronave. Non essendoci fonti di luci a parte il boccaporto principale, ci si doveva avventurare portando con sé un lume. Felix Faber allude alla continue liti, soprattutto all’inizio del viaggio, tra chi voleva dormire e chi voleva rimanere sveglio, liti che spesso terminavano appunto col lancio dei pitali sopra le candele irrispettose…
Al mattino, i bisogni corporali venivano espletati a prua, dove si trovavano due appositi fori, davanti ai quali, nota il frate, si forma una coda «come in quaresima davanti al confessore». In nave, sostiene Faber, occorre lavarsi spesso, per evitare il rischio di prendere i pidocchi. «Ci sono molti invece che non sono provvisti di ricambi, e sono avvolti in tali puzze e fetori, che nella barba e nei capelli crescono i vermi».
Il pranzo era consumato due volte al giorno, al mattino e alla sera, e gli uomini a bordo venivano chiamati a tre «tavole» ben distinte a seconda del rango sociale: gli uomini da remo mangiavano sui loro banchi; i marinai, i balestrieri, il personale specializzato in genere a una mensa intermedia e infine il comitus con lo stato maggiore della galea mangiavano «come se fossero stati a Venezia».


Fonte: Martino Sacchi

martedì 1 giugno 2010

Giovanni Caboto

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Giovanni Caboto (?, 1450 circa – Inghilterra, 1498) è stato un navigatore ed esploratore italiano, famoso per aver continuato l'opera di Cristoforo Colombo iniziando la serie di grandi viaggi di scoperta verso il nord-ovest, in particolare per aver scoperto il Canada il 24 giugno 1497.
A seguito della conquista di Gaeta da parte degli Aragonesi, la famiglia Caboto, temendo la vendetta dei vincitori, dovette abbandonare Gaeta e rifugiarsi nel 1461 in Venezia. Circa 15 anni dopo essersi trasferito in Venezia, nel 1476, Giovanni ottenne dal Senato di Venezia la cittadinanza.
Si sposò con Mattea, da cui ebbe tre figli (Sebastiano, Luigi e Santo) che lo seguirono in numerosi viaggi in Oriente, acquisendo ottime abilità nell'arte della navigazione.
Purtroppo la Serenissima non fu così lungimirante ed interessata a sfruttare le qualità del giovane navigatore, perdendo l'occasione storica di inserirsi nel gruppo delle grandi potenze marinare europee impegnate nell'esplorazione degli oceani e di mari sconosciuti, un campo dove predominavano spagnoli e portoghesi, limitandosi così a dedicarsi ai traffici commerciali all'interno del Mar Mediterraneo, non capendo che da lì a poco tutto il mondo dei traffici commerciali sarebbe stato rivoluzionato.
Caboto si spostò infatti a Valencia dove diresse i lavori di ampliamento del porto voluti dal re Ferdinando II d'Aragona. Nel 1493 Cristoforo Colombo ritornava dal suo primo viaggio transatlantico. Ma Caboto intuì che il genovese non aveva raggiunto l'Estremo Oriente e propose a Ferdinando II e Isabella di Castiglia di affidargli un viaggio esplorativo lungo una rotta più settentrionale.
Avendo ricevuto un rifiuto, si trasferì nel 1496 in Inghilterra, per convincere il re Enrico VII a sostenere il suo progetto. Il re, che già aveva perso l'occasione di avere Cristoforo Colombo al proprio servizio, si affrettò a concedere l'autorizzazione a Giovanni Caboto e accolse il suo progetto di viaggio con lettere patenti del 5 marzo 1496. Nel porto di Bristol fu così organizzata una spedizione di cinque navi, armate a spese di Caboto.
Tuttavia, per ragioni ancora da chiarire, il 2 maggio 1497 salpò solo una di esse, il Matthew, naviglio di cinquanta tonnellate con un equipaggio di diciotto uomini: con molta probabilità, si imbarcarono anche i figli Luigi e Sebastiano.
Il 24 giugno 1497, approdò sull'isola di Capo Bretone e toccò la Nuova Scozia, avvistando l'isola di Terranova, e, nell'illusione di aver toccato l'estremità Nord Orientale dell'Asia, ne prese possesso in nome di Enrico VII.
Sulla nuova terra scoperta Caboto piantò la bandiera inglese e quella della Repubblica di Venezia.
Ai primi di agosto, dopo un'assenza di circa tre mesi il Matthew fece ritorno a Bristol e la notizia delle nuove scoperte venne accolta in Inghilterra con grande giubilo anche tra la popolazione. Enrico VII concesse allo scopritore un premio di dieci sterline e più tardi una pensione annua di venti sterline.
L'anno successivo Enrico VII, con le lettere patenti del 3 febbraio 1498, autorizzò Giovanni Caboto ad approntare una spedizione di sei navi e almeno duecento uomini di equipaggio, allo scopo di colonizzare le terre scoperte e proseguire la ricerca di altre terre, nella speranza di poter raggiungere il favoloso Cipangu (l'odierno Giappone).
Le navi salparono nell'estate del 1498: con il figlio Luigi, Caboto toccò il Labrador e costeggiò la Groenlandia meridionale. A questo punto, si perdono le tracce della spedizione inglese.
Secondo alcuni storici, Caboto avrebbe raggiunto le coste del Nord America e avrebbe iniziato a procedere in direzione sud-ovest come previsto dal suo programma. Ciò sarebbe avallato dal fatto che tre anni dopo, nel 1501, l'esploratore Gaspar Corte-Reál ricevette dagli indigeni del Nord America, con cui era entrato in contatto, alcuni oggetti probabilmente appartenuti agli uomini della spedizione di Caboto, ma nulla si seppe della fine dell’intero equipaggio e del suo comandante.
Nonostante il misterioso epilogo della spedizione del 1498 e il blocco di ulteriori esplorazioni inglesi durante il regno di Enrico VII, la spedizione di Caboto pose le basi della futura colonizzazione inglese del Nord America. Inoltre le esplorazioni di Giovanni Caboto assicurarono ai geografi europei le prime indicazioni scientifiche circa la vastità del continente americano e stimolarono la ricerca di un passaggio a Nord-Ovest verso l'Estremo Oriente.

venerdì 28 maggio 2010

Franchetti

La Cà d’Oro fu fatta costruire da Marino Contarini nel 1400 in pieno stile gotico fiorito e fatto decorare con sottili lamine d’oro (da cui il nome) che lo resero immediatamente il palazzo più ammirato del Canal Grande. I Contarini abbandonarono il palazzo a fine ‘700 con la caduta della Repubblica. Fu poi acquistato da un principe russo che ne affidò il restauro ad un ingegnere tedesco che fece uno vero e proprio scempio. Fortunatamente alla fine del 1800 fu acquistato dal Barone Giorgio Franchetti (nobile famiglia di lontane origini mantovane), che lo restaurò ispirandosi al disegno originario, ricreando in pratica l’ambiente di una ricca casa di un patrizio nel 1400; ma fin dall’inizio il suo intento non era di farne una dimora ma di realizzare un vero e proprio museo e di ospitarvi la propria collezione di opere d'arte per renderla visitabile al pubblico. Nel 1916 Franchetti stipulò un accordo con lo Stato Italiano nel quale si impegnò a cedere il palazzo al termine dei lavori in cambio della loro copertura finanziaria. Il 18 gennaio del 1927 venne inaugurato il museo intitolato "Galleria Giorgio Franchetti" alla memoria del barone, scomparso nel 1922.

Il personaggio più avventuroso della famiglia Franchetti è senz’altro l’esploratore Raimondo (1981-1935) che dalle Montagne Rocciose, ai Mari della Cina, all’Africa, viaggiò senza sosta (a parte la parentesi della prima guerra mondiale a cui partecipò).
Ventenne, fu abbandonato su un’isola in Malesia, poiché sull’imbarcazione su cui viaggiava era scoppiata la peste e così, si ritrovò a vivere da solo con una tribù locale per circa un anno.
Fu ritrovato da una missionaria inglese quando ormai tutti lo davano per morto.
Nel 1911 documentò la rivoluzione in Cina.
Nel 1920 sposò a Venezia (nel palazzo Cavalli-Franchetti sul Canal Grande) la contessina Bianca Rocca, discendente per parte di madre dalla famiglia dei dogi Mocenigo, da cui ebbe quattro figli.
Il paese che segnò la sua vita fu però l’Africa, dove, a più riprese, partecipò a varie spedizioni (spesso accompagnato da Luca Comerio, fotografo ufficiale di Casa Savoia, e pioniere del filmato documentaristico)
Memorabile fu quella in Dancalia sulle tracce della spedizione Giulietti massacrata dai dancali.
Su questa impresa scrisse il libro “Nella Dancalia etiopica”, e in ricordo chiamò sua figlia Afdera (che sposerà Henry Fonda) dal nome del lago etiope da lui ribattezzato Giulietti.
Morì in un incidente aereo mentre viaggiava con il governatore onorario della colonia eritrea, insieme al quale stavano trattando con il Negus circa la possibilità di evitare la guerra.
L'incidente suscitò immediatamente vasta eco, anche sulla stampa estera e subito, più volte, si parlò di attentato, forse ad opera di agenti britannici, ma le vere cause non furono mai chiarite. Anzi, la commissione di inchiesta inviata dal governo italiano, per probabili ragioni di opportunità politica, dichiarò rapidamente l'impossibilità di appurare le ragioni dell'incidente.

Da ricordare anche Alberto Franchetti, famoso musicista, che collaborò con D’Annunzio e che fu strettamente amico di Puccini e Mascagni, le cui opere furono dirette da Toscanini e da Mahler
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martedì 25 maggio 2010

Amori dimenticati, fedelmente raccontati

Dopo aver studiato diritto a Padova, a quindici anni Giacomo Casanova (1725-1798) ricevette gli ordini minori dalle mani del patriarca di Venezia. Ora portava la tonaca, e anche la tonsura, che lo facevano riconoscere per chierico. La gente vedeva già in lui un sacerdote, sua nonna persino un apostolo! Era fiera del nipote, che con la sua vocazione spirituale assicurava a se stesso e all’intera famiglia la salvezza dell’anima.
Il giovane chierico deve tenere la sua prima predica nelle chiesa di San Samuele. Tema prescelto, alcuni versi di Orazio, ma il curato Tosello non approva la proposta: la chiesa non è luogo per poeti pagani. Presto però si presenta al giovane una nuova occasione per farsi valere come predicatore: il 19 marzo 1741, alle quattro del pomeriggio, salirà sul pulpito per tenere la predica festiva in onore di San Giuseppe, il casto sposo della Vergine Maria. Casanova prepara la predica e la impara a memoria, ripetendola la sera prima di andare a letto e la mattina appena sveglio. Non ha problemi con la memoria, lo si è già visto a scuola.
Ma proprio il giorno della festa di San Giuseppe viene inviato a pranzo dal conte di Monreale. Il pranzo è buono e altrettanto il vino. Casanova sta per dimenticare la predica. Un messo viene a prenderlo, e Casanova giunge in chiesa appena in tempo.
Ecco che il giovane chierico si trova sul pulpito, appesantito dal pranzo e dal vino, davanti ai volti della parrocchia riunita. Riesce a dire appena l’esordio, poi perde il filo, si inceppa. I fedeli bisbigliano, trattenendo a stento le risate. A questo punto Casanova si fa prendere dal panico, perde la testa e dimentica la predica appresa così faticosamente a memoria. Evita l’imbarazzo con uno svenimento, mezzo vero e mezzo simulato, e stramazza sul pulpito. Viene portato privo di sensi in sagrestia. Il disastro è completo e Casanova, cui l’oblio fu così fatale, prende una decisione definitiva: “Ebbi la forza di persistere nella decisione di non saggiare più quel mestiere”.
La via è libera alla vocazione erotica di Casanova.
Anch’essa inizia con il curato Tosello o, per meglio dire, con sua nipote Angela. Giacomo ama Angela, Angela ama Giacomo ed è anche disposta a diventare sua moglie, ma fino a quel momento sorveglia “come un drago” la sua virtù e non concede all’amante il benché minimo favore. L’”avarizia” di Angela finisce per sconvolgere l’amante, la sua astinenza lo prosciuga. L’amore diventa un tormento, deve dimenticare “per qualche tempo i rigori della crudele Angela”.
Lo aiuta in questo un soggiorno in campagna.
Di ritorno a Venezia si riaccende in lui la passione temporaneamente sopita per Angela. Casanova ricomincia ad incalzarla con le sue voglie, ma la donna rimane risoluta. Casanova lascia furioso la città e torna a Padova per laurearsi, ma soprattutto per dimenticarla. Il titolo universitario non basterà allo scopo, ma a dimenticare lo aiuteranno in modo molto più efficace, al suo ritorno a Venezia, la sedicenne Nanette e la quattordicenne Marton. La notte è abbastanza lunga per divertirsi sotto le coperte con le due compagne, per fargli provare un piacere di cui godeva per la prima volta in vita sua, e per dimenticare “definitivamente” Angela: “J’oublie Angéla”.

Tutto questo lo veniamo a sapere dalla sua autobiografia, scritta in francese e pubblicata in edizione postuma con titolo Histoire de ma vie (1825), che egli terminò nel 1797, a settantadue anni, nel castello boemo di Dux. Una delle caratteristiche e dei paradossi più affascinanti di queste ‘confessioni’ è che Casanova si ricorda anche, e con la massima precisione, delle circostanze del vari oblii.
Per poter scrivere questi ricordi, da vecchio, lontano dagli affari mondani, Casanova rafforzò per tutta la vita la memoria (che una sola volta, come s’è visto, l’aveva piantato in asso) con note e molte lettere da lui scritte o ricevute. In questo modo potè ricordarsi delle innumerevoli donne da lui amate nel corso della vita, anche se non si vantò mai del numero delle sue avventure amorose. Casanova non è Don Giovanni, e non trae piacere dalle conquiste in sé, ma tutte le donne, a cui a fatto instancabilmente la corte, le ha amate, una dopo l’altra.
E’ vero che in ognuna delle nuove avventure amorose, Casanova cerca sempre nuovi piaceri dei sensi, ma ad eccitarlo non è ciò che in questo gioco si ripete sempre uguale, bensì ciò che ogni volta soddisfa la sua curiosità in modo diverso. Un bibliofilo come Casanova vuol leggere ogni donna come un libro, e questo significa che, come il lettore, prima di aprire un nuovo libro, deve chiuderne un altro. Così tra due amori, come tra due letture, si trova una cesura che nel linguaggio erotico di Casanova è chiamato oblio, e tuttavia un tipo di oblio che non esclude più tardi il ricordo.


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